Tajikistan – Giorno #2
Avete presente quando si inizia a preparare un viaggio, si leggono libri, si consulta una guida? A me capita sempre di avere dei colpi di fulmini di luoghi di cui fino a quel momento nemmeno sapevo l’esistenza. Inizio a fantasticarci, pensare a come saranno le persone che incontrerò, quali i loro stili di vita, le loro preoccupazioni quotidiane e come passino le loro giornate.
È così che sono arrivato a Marghib, primo villaggio yagnobi lungo la Yagnob Valley.
Una lettura, poche righe e ho subito capito che in quel luogo, costi quel che costi, sarei dovuto arrivare.
Così mi sveglio di buon’ora, preparo lo zaino e parto. Arrivare nella valle non è semplicissimo, soprattutto oggi che è il giorno del Sacrificio per i musulmani, un giorno sacro da passare in famiglia. I mezzi pubblici sono scarsi e me ne accorgo appena messo piede alla stazione delle marshrutke — i minibus locali, tipici di tutte le aree ex sovietiche. Devo prendere un mezzo per Ayni ma, mi comunicano gli uomini del posto, oggi non ce ne sarebbe stato nessuno. Non demordo, devo trovare un modo per arrivarci. Chiedo in giro, nessuno mi capisce, il mio livello di russo è tale da far impallidire il celebre “noio volevam savuar l’indriss” di Totò. Inizio a menzionare nomi di città che stanno a metà strada e riesco a capire che c’è una marshrutka che va nella direzione che sto cercando.
Partiamo in pochissimo tempo e dopo circa un’ora vengo scaricato per strada, prima del tunnel di Anzob, una galleria costruita dai cinesi pochi anni fa che ha permesso di dimezzare il tempo di percorrenza tra il nord e il sud del paese.
In cambio — ça va sans dire — i cinesi hanno ottenuto per alcuni decenni la concessione dello sfruttamento di alcune miniere aurifere nella zona dei Monti Fann.
Ma torniamo a noi, sono sulla strada, devo riuscire a farmi portare al di là del tunnel dove inizia la deviazione per la valle di Yagnob. Passano pochissime macchine ma dopo una ventina di minuti ecco all’orizzonte una marshrutka. Salto su.
Mi lascia al bivio di Takfon da dove, con mia estrema sorpresa, la deviazione per la valle si riduce ad una bianchissima strada sterrata. Anime vive contate: nessuna.
Aspetto un po’, è ancora mattina per fortuna per cui decido di lasciar fare agli eventi. Si ferma di lì a poco una jeep da cui scendono quattro uomini agghindati per la festa e una capra con due corna ben piantate sulla testa. Mi avvicino, nomino il villaggio che vorrei raggiungere. Si forma un capannello di persone a cui accorrono anche due ragazzi del posto. Riesco a capire che lasceranno lì la capra, che viene prontamente legata ad un palo vicino alla strada, e torneranno a prenderla in un paio d’ore per portarla al villaggio di Marghib dove sarà poi sacrificata per la festa. Bingo!
Mi rilasso, rimane lì anche un altro tizio che deve salire in valle. Chiacchiero un po’ con lui e con un altro ragazzo che vende bibite in un chioschetto e parla a stento un po’ di inglese. Studia cinese a Dushanbe, inizio a subodorare che la presenza cinese anche qui come in tanti paesi cosiddetti “in via di sviluppo” sia rilevante.
Passano le famose due ore e la capra è sempre lì a bordo strada, ancora nessun segno di vita della jeep e dei famosi quattro.
Intanto passo il tempo, scrivo un po’ e attendo all’ombra fresca di alcune piante. Dopo un’altra mezz’ora, passa una jeep che prende proprio la strada bianca. La fermiamo, l’autista è di Marghib e sta rientrando a casa. Chi la dura la vince!! Sono in strada per la tanto desiderata valle di Yagnob!!
Il fiume, che dà il nome alla valle, scorre impetuoso di fianco a noi, ad ogni curva si aprono scorci incredibili dominati da quell’acqua dal colore indefinibile: verde, azzurro opaco, color vetro appannato. Uno spettacolo della natura!
Ma ora devo spiegarvi perché gli yagnobi hanno attirato così tanto la mia attenzione: ebbene, la loro è una popolazione antichissima. Gli studiosi pensano che siano diretti discendenti dei Sogdiani, un popolo che in tempi lontanissimi, attorno al VI secolo d.C. aveva creato un vero e proprio impero che dominava la Via della Seta. La loro capitale era Samarcanda e si deve a loro il primo sviluppo della città, che fu poi distrutta da Gengis Khan, ricostruita da Tamerlano e altre storie pazzesche centro-asiatiche che sarebbe qui troppo lungo spiegare.
Gli yagnobi, dunque, parlano una lingua iranica direttamente discendente dal sogdiano, scapparono durante le invasioni arabe per proteggersi e rimasero per secoli confinati in una valle inaccessibile per almeno sei mesi all’anno per via della neve che scende copiosa già a partire da Novembre. La loro buona stella lì abbandonò quando, durante il periodo del colonialismo sovietico, venne deciso di prelevarli dalla valle con elicotteri e deportarli nei kolkhoz sovietici, sorta di comunità agricole di lavoro forzato, a coltivare cotone nelle pianure del nord del paese. Molti di loro non riuscirono ad adattarsi alle nuove condizioni di vita e vi morirono, altri rimasero. Ma un manipolo di poche centinaia di unità riuscì dopo tanti anni a tornare nella propria valle. Ed ecco qui un esempio di resistenza culturale e sociale che non poteva passare inosservato ai miei occhi.
Arriviamo a Marghib e mi sistemo nell’unica guesthouse del paese. Quando entro nel soggiorno coperto di tappeti a terra e sulle pareti, dove viene servito il tè, trovo un gruppo di quattro italiani! Sono arrivati in minibus con una guida locale con la quale partiranno per sei giorni di trekking l’indomani mattina.
Chiacchieriamo un po’, sono già stati in Tajikistan l’anno scorso per percorrere il Pamir e sono tornati quest’anno per completare la conoscenza del paese. Non c’è che dire, dei veri esploratori!
Dopo un po’ di riposo e innumerevoli tazze di tè verde, parto alla scoperta del paese. La gente è molto amabile, saluto tutti con deferenza e vengo ricambiato da sorrisi e strette di mano. Le donne sono indaffarate a sistemare il fieno che servirà per sfamare le bestie nel lungo e rigido inverno. Nell’aria un profumo di camomilla essiccata che vedo spuntare tra le pile di fieno. Giro senza meta facendo qualche foto e lasciandomi trasportare dall’energia e dalla seduzione che solo certi luoghi mi danno.
Mi ferma un anziano, che si sta riposando fuori dalla sua casetta di legno. Mi invita a sedermi a fianco a lui, mi parla in russo, non capisco nulla ma fa segno di restare. Entra in casa ed esce con, nell’ordine: teiera fumante e tazza da tè, nan — il pane rotondo tipico dei paesi dell’Asia Centrale — anguria fresca appena affettata, fichi e uva appena raccolti. Mi guarda — mangia! — capisco che mi sta dicendo con gli occhi. E io mangio, non posso fare altrimenti, fino all’ultimo acino di uva. Gli scatto una foto, lo ringrazio in russo, in tajiko, in inglese. Lo ringrazio con gli occhi.
Torno alla guesthouse, nel frattempo si è aggiunta una coppia di simpatici tedeschi arrivata con un fuoristrada con cui hanno girato tutto il Tajikistan. Sono entusiasti!
Passiamo la serata seduti a gambe incrociate attorno alla “tovaglia imbandita”. Il modo di consumare i pasti e stare insieme qui è veramente comunitario e ricco di umanità, induce allo scambio e al confronto. Chiacchieriamo con Said che fa da guida e traduttore per il gruppo di italiani. Ha solo diciotto anni ma è un ragazzo sveglissimo, a settembre inizierà a studiare economia a Dushanbe, vuole fare l’università e poi un master in Russia. È molto intelligente, un piacere passare del tempo con lui.
Quando la stanchezza inizia a farsi sentire, ci ritiriamo nelle nostre stanze coperte anch’esse da tappeti multicolori. Si dorme per terra, coricati su un sottile materassino. Ho sempre odiato il campeggio proprio per il fatto di dormire per terra, ma dopo una giornata così piena di vita e momenti preziosi, cado in un sonno profondo e grato.
Questo Tajikistan è iniziato decisamente per il verso giusto!