Tajikistan — Giorni #9–11
Oltrepassata l’ultima salita dopo il villaggio di Iskhashim, inizia un nuovo mondo. Un mondo antico, fatto di ritmi lenti, dove il suono dei passi sulla strada sembra quasi distoglierti dalla bellezza dei suoi silenzi assoluti. È proprio quando superi quell’ultima collina che la vedi, in tutta la sua bellezza, nel giallo intenso delle spighe di grano che danzano nella brezza leggera, nei verdi intensi dei suoi pascoli, punteggiati dalle macchie scure delle greggi. È la Wakhan Valley, una valle remota posta proprio in quello stretto corridoio che separa Tajikistan e Afghanistan, lungo una delle direttrici della Via della Seta. In questa valle incredibilmente feconda, sono passati mercanti e condottieri, che dalle Indie commerciavano con l’Occidente e trovavano proprio qui un passaggio agevole verso Ovest in un territorio dominato da cime immense e insormontabili: il Pamir da una parte e l’Hindu Kush dall’altra.
Ed è qui che dalla notte dei tempi vivono i wakhi, un popolo dedito alla pastorizia e all’agricoltura. Un popolo dall’animo gentile e nobile, che sa cosa vuol dire accogliere un viandante perché da queste parti si passa, si sosta, ci si riposa e si riparte da sempre. Sarà questo lascito della Storia che ha reso i wakhi così aperti verso gli altri.
Decido così di seguire le orme dei viaggiatori dei secoli passati e percorrere la valle quanto più possibile a piedi. Da Iskhashim all’ultimo villaggio della valle, Langar, sono più di cento chilometri attraverso alcuni dei paesaggi più incredibili di tutta la regione.
Quando parto da Iskhashim è già pomeriggio inoltrato, passo alla guesthouse dove avevo dormito la sera precedente per prendere lo zaino e lì incontro Gabriele, un ragazzo italiano in viaggio zaino in spalla come me. Chiacchieriamo un po’, sembra simpatico. Gli dico che sto partendo per Namadgut, prima tappa nella valle, voglio arrivarci a piedi. Ci pensa qualche istante, mi chiede se può unirsi. Non so nulla di lui ma a pelle sento che siamo sulla stessa lunghezza d’onda e che, forse, non è una coincidenza esserci incontrati proprio in quel momento.
Voglio camminare per incontrare le persone e conoscere le loro storie. Appena superata la collina, di fronte a noi si apre un panorama che mi riempie gli occhi: nuvole leggere passano nel cielo macchiando le montagne afghane di ombre passeggere. Di fronte a noi una lunga strada dritta che costeggia campi di grano dove i contadini stanno mietendo a mano le messi e preparando fascine per il lungo inverno. Passiamo in mezzo a loro e tutti ci salutano mettendosi una mano all’altezza del cuore. È un gesto che impareremo a conoscere, riconoscere e imitare per tutti i giorni successivi.
Dopo poco più di tre ore raggiungiamo Namadgut, il sole sta tramontando, i colori sono splendidi. Il fiume che scorre placido di fianco al villaggio si riempie di riflessi dorati. Accosta un’auto, due ragazzi ci fanno cenno di salire e ci portano nella guesthouse del paese. Grazie all’arrivo di qualche turista, le famiglie si sono organizzate e, in ogni villaggio, è possibile soggiornare nelle loro case, potendo in questo modo assaporare a pieno l’ospitalità pamiri. Grazie a questi ingressi, molte famiglie riescono a far studiare i loro figli e mandarli all’università.
Nella guesthouse di Namadgut ci accolgono Shalo e la sua famiglia. Shalo è una ragazza di 17 anni con un viso meraviglioso, parla bene inglese e non vede l’ora di chiacchierare con noi. Ci mostra la nostra stanza, come sempre adorna di tappeti, calda e accogliente. Ci sistemiamo e poco dopo la vediamo arrivare con la cena, appena preparata. È una semplice insalata calda di patate, uno dei prodotti coltivati maggiormente nella valle. Si siede a gambe incrociate vicino a noi, mentre affamati ci buttiamo su quel piatto semplice. Ci racconta che tra poche settimane inizierà l’ultimo anno di scuola superiore e che poi andrà a studiare lingue a Dushanbe. Ama l’inglese, vorrebbe vedere il mondo e raccoglie i contatti di tutti i suoi ospiti con la speranza, un giorno, di poterli andare a trovare. Anche io e Gabriele le lasciamo i nostri.
Il giorno dopo siamo di nuovo in cammino. Non serve dirsi molte parole, Gabriele mi dice che gli farebbe piacere continuare insieme e sento che è la persona giusta con cui farlo. Parliamo molto, abbiamo tante cose in comune e viviamo il viaggio in maniera molto simile. È strano dopo giorni di viaggio da solo trovarsi con qualcuno che condivide così pienamente le tue idee. Vogliamo camminare per sentire l’energia di quella valle nella maniera più genuina possibile. Macchinoni e jeep di altri turisti che attraversano la valle in una sola giornata per scattare qualche fotografia ci sfrecciano a fianco, riempiendoci di polvere ma noi continuiamo per la nostra strada. Ogni tanto prendiamo qualche passaggio dalle persone del luogo che si fermano per sapere se abbiamo bisogno di una mano.
Arriviamo così fino a Yamchun, forse il villaggio più famoso della valle perché è qui che si erge l’imponente castello che domina la Wakhan Valley. Di fronte a noi le imponenti montagne afghane lasciano intravedere le vette di oltre seimila metri che separano Afghanistan e Pakistan, ricoperte da immensi ghiacciai. Questa striscia di terra larga solo diciotto chilometri fu creata nell’Ottocento per evitare che l’impero russo a nord e quello inglese a sud si potessero toccare. Era una sorta di zona cuscinetto negli anni del cosiddetto “Grande Gioco”.
Ci sistemiamo a casa di Akim, un simpatico settantenne con una casa tradizionale pamiri immersa in un giardino lussureggiante. Prendere il tè seduti sul kat in giardino, con lo sguardo che spazia sulle montagne e sulla valle è impagabile. Soprattutto dopo tante ore di cammino con gli zaini pesanti che segnano le spalle. Per rilassarci saliamo alle terme di Bibi Fatima, le più famose della valle, dove acqua caldissima sgorga dalle viscere della montagna. Un militare ci fa salire sulla sua camionetta e ci porta in cima. Passiamo la sera con Akim che ci mostra le foto di quando era giovane e studiava a Mosca, e con suo nipote Husrow, un simpatico nanerottolo di nove anni che ama la musica ed al quale faccio ascoltare alcune delle mie canzoni preferite che ho sul cellulare. Gli piacciono, si mette persino a ballare e quando vede la copertina di un album in cui è raffigurato un astronauta inizia a gridare “Gagarin, Gagarin!!!”.
Il giorno dopo saliamo al castello, è una bella sfacchinata ma da lassù la vista è impareggiabile, magica! Mentre scendiamo si ferma una jeep con a bordo quattro persone del posto, vanno a Vrang la nostra tappa successiva. La valle è ancora lunga per cui decidiamo di prendere il passaggio. Visitiamo la stupa buddista in cima alla collina, anch’essa testimonianza di un passato ricco di influenze e culture diverse, ma lasciare Vrang sembra un’impresa. Siamo continuamente assaliti dai bambini che vogliono sapere da dove arriviamo e come ci chiamiamo.
Uno di loro ci invita a casa per bere tè e non possiamo non accettare. Gli scatto una foto, un ritratto, per portarlo nei miei ricordi. Faccio così anche con altre persone che incontriamo per la strada, come l’anziana signora che ci fermiamo a salutare mentre lasciamo il paese. Apre la borsa di plastica che ha in mano e, senza dire una parola, ci regala un nan appena sfornato. Per il viaggio. È commovente, il suo viso pieno di rughe ma così delicato e dolce incorniciato dal copricapo tipico delle donne wakhi è sicuramente una delle immagini che resteranno vivide nei miei ricordi.
La strada si dipana tra grandi pascoli e improvvisi canyon dove il panorama muta e diventa arido e sabbioso. In un’ansa del fiume riposiamo i nostri piedi nelle fredde acque del Panj. Intorno a noi solo le immense montagne e i silenzi della valle.
Quando siamo vicini al villaggio di Zong, le forze iniziano a mancare. Dico a Gabriele di pensare intensamente a un’auto che ci dia un passaggio. Siamo seduti sul ciglio della strada, pieni di polvere, quando si ferma una jeep. È Safar, un ragazzo di Langar che, prima di portarci a casa sua, ci propone di andare alle terme del paese dove uomini e donne, in stanze separate, si lavano alla fine di una lunga giornata. Da fuori sembra più un bagno pubblico, diciamo pure una latrina, che un hammam. Ed in effetti quando apro la porta di ingresso, c’è solo una stanzetta mal messa dove gli uomini si spogliano e subito dopo una piccola vasca in cui potersi immergersi e lavarsi. Banya la chiamano i russi. Ci spogliamo e partecipiamo a questo rito comunitario. Siamo nudi in quella piccola vasca dove scorre l’acqua calda delle montagne del Pamir. Giovani, anziani, bambini, io e Gabriele.
È così che salutiamo la Wakhan Valley, ripuliti dalla polvere accumulata in più di sessanta chilometri di cammino. Grati, riconoscenti e per sempre legati alle persone che ci hanno accolto, nutrito e salutato portandosi una mano sul cuore.