Benin – Giorni #14-16
Ho appena toccato la felicità, è stato un attimo. Sono sul golfo di Guinea, in quel punto dove il fiume Mono si butta nell’Oceano Atlantico. Camminavo sulla spiaggia, il sole era appena tramontato e il cielo aveva ancora quel colore rossastro timido di quando il sole va a dormire. Arrivo proprio nel punto dove il fiume lotta con tutta la sua forza per entrare in mare, combattendo contro le onde che ruggiscono prepotenti in direzione opposta. Mi guardo attorno, siamo solo io, le palme, i granchi e l’oceano immenso. È stato un attimo, è cresciuto dentro di me e mi ha fatto esplodere. Ho gridato, gridato con tutta la forza e con tutta l’aria che avevo nei polmoni. “Sono felice, sono feliceeee” urlavo nel nulla, una sensazione di libertà, di gioia infinita.
Sono arrivato qui dopo tre giorni altalenanti. Domenica sono partito da Natitingou prima dell’alba, Alfonse mi ha accompagnato al bus che mi avrebbe scaricato a Abomey, quasi 300 chilometri verso il sud del paese. Il viaggio è stato devastante, non tanto per la durata, quanto perché per tutte le dannatissime otto ore di viaggio, l’autista ha trasmesso sulla televisione del bus una serie di puntate di una soap opera ivoriana in cui i protagonisti urlavano e si disperavano come in una qualsiasi soap opera di quint’ordine, a volume assordante. E la cassa era proprio sopra la mia testa.
Arrivati a dieci chilometri da Abomey il bus si spegne, morto, kaput. Dopo dieci minuti, scendo e vedo che stanno trafficando sulla batteria. L’autista mi rassicura “on va partir maintenant” – partiamo subito. Non mi fido, dopo altri dieci minuti, prendo lo zaino dal bagagliaio e mi metto in strada a fare autostop. La prima macchina che passa mi carica – siamo in Africa, è facile prendere passaggi – e mi lascia ad Abomey.
Ho un mal di testa spaventoso, cerco un hotel che avevo visto su tripadvisor e lo trovo. Mi fanno vedere almeno cinque camere, tutte occupate tranne una ancora da rifare. La signora ha modi molto bruschi, mi dice di aspettare che qualcuno verrà a rifarla. Sono sul punto di cedere per la stanchezza ma quando vedo che in bagno non hanno nemmeno riempito la tanica d’acqua, il nervosismo prende il sopravvento e me ne vado, non prima di aver litigato con la signora. In tutti i viaggi arriva la giornata storta, bisogna solo farla passare.
Sulla strada mi affianca Simplice, un artigiano locale che mi porta in un alberghetto molto carino gestito da Edith, una beninese simpatica che si prende cura di me. Mi lavo e faccio un giro veloce per visitare il palazzo reale del regno di Dahomey, patrimonio Unesco. Sono talmente stanco e nervoso che dopo mezz’ora esco. La giornata è nata male e nemmeno se avessi davanti la Cappella Sistina, riuscirei a godermela. Torno in albergo, ceno con un signore svizzero che vive in Benin da molti anni. Vado a letto distrutto appena dopo cena.
La mattina l’unica cosa che voglio è lasciare Abomey. È una cittadina brutta in cui c’è qualche turista per via del palazzo reale. Questo ha sicuramente influito sul fatto che la gente non sia così gentile e ospitale come in altre parti del paese ma veda il bianco come un portafoglio ambulante. È una sensazione che comunque, quando più quando meno, sento in tutto il sud del paese. Il Togo e il nord del Benin sono ancora turisticamente vergini, la gente dà senza per forza aspettarsi nulla in cambio. Ed è bellissimo.
Per sfuggire a questa dinamica cerco sulla guida un posto lontano dalle rotte turistiche e decido di andare al lago Ahémé, scelta azzeccata. Prendo uno zem fino ad Azové, da lì attendo un taxi-brousse per Zougbonou. Il taxi-brousse parte dopo più di un’ora carico di gente, tra loro Rigobert, un signore sovrappeso che scoprirò poi andare proprio a Possotomé, il villaggio sul lago dove sono diretto. Quando scendiamo dall’auto, mi offre un passaggio in moto e in poco più di mezz’ora siamo arrivati. Mi lascia in un alberghetto bellissimo gestito da Ecobenin, un’associazione di turismo responsabile beninese, costruito solo con materiale del posto e immerso nel verde. Quello che mi ci voleva.
Il lago Ahemé è intriso di magia, ma non quella magia pseudo-romantica da film, parlo proprio di magia vera, di energia sovrannaturale. Questo lago, infatti, è sacro ed è abitato da quarantacinque divinità voudoun, tante quanti sono i villaggi che affacciano sul lago. Questa e tante altre storie me le racconta Marc, un ragazzo che incontro sul bordo del lago mentre sta per uscire a controllare le sue reti da pesca con cui si guadagna da vivere. Gli chiedo di accompagnarlo e, insieme a un signore che guida la piroga armato di una lunghissima canna di bambù, prendiamo il largo. Il lago benché grande è in realtà una laguna, l’acqua infatti è profonda tra i due e i sette metri. Tutta la sua superficie è infilzata di pali di bambù, alcuni sorreggono le reti che vengono tirate per pescare, altri disposti a cerchio sono veri e propri altari in cui è proibito entrare in quanto al centro, sott’acqua, sono conservate le divinità Voudoun.
Qui tutti seguono questa religione, o forse meglio chiamarlo credo, tutti pensano che la vita sia regolata da queste divinità che aiutano l’uomo e vanno rispettate e venerate. Non è il voudou da cinema delle bamboline, le divinità Voudoun non possono fare del male anche se avrebbero la potenza per farlo. Aiutano l’uomo e lo guidano. Marc mi mostra le tecniche di pesca tradizionali, sono veramente antiche e si tramandano di generazione in generazione. Si usano reti, ami, piombi e galleggianti. Mi fa provare a gettare la rete, non pesco nulla ma è fichissimo!
Al ritorno, giro un po’ per il villaggio e mi rilasso guardando quella distesa di acqua placida. Alla sera scendo a cenare a bordo lago. Il ragazzo dell’albergo, però, mi prega di chiamarlo quando avrò finito per farmi venire a recuperare. Non è sicuro tornare a piedi, anche se si tratta di meno di quindici minuti di strada: di sera escono gli zangbeto. Gli zangbeto sono delle divinità Voudoun in carne e ossa, o meglio sono degli uomini coperti da testa a piede di fili di rafia. Queste figure sono i guardiani della notte e si aggirano per i villaggi per garantire la sicurezza del popolo. In realtà sono temutissimi dalle persone del luogo tanto che la loro uscita è annunciata da un suono, dopo il quale tutte le persone devono correre a chiudersi in casa. Nessuno può uscire. Per i credenti in realtà sotto la maschera zangbeto, non vi è nessun uomo ma solo lo spirito delle divinità che animano la figura.
Un po’ eccitato, un po’ impaurito, finisco la cena ma quando sto per chiamare il ragazzo arriva Rigobert. Fa il giornalista presso la radio locale. Gli racconto quello che mi ha detto il ragazzo dell’albergo e mi dice di non preoccuparmi, che prima di mezzanotte gli zangbeto non sarebbero usciti. Prendiamo la moto e nel cuore della notte, mi porta prima a vedere la radio, poi casa sua e poi a una festa in un villaggio vicino dove si suona e si balla. Siamo io e qualche centinaio di beninesi. Arrivata quasi l’ora del coprifuoco, mi riaccompagna promettendomi di venire a salutarmi l’indomani mattina.
Mi sveglio presto, voglio scoprire i villaggi vicini a Possotomé a piedi, scendo al villaggio e immediatamente due ragazzi mi si avvicinano e mi accompagnano. Arriviamo alla foresta sacra e mi avvertono che dentro c’è una divinità Voudoun per cui se voglio entrare, il capovillaggio dovrà poi sacrificare qualche animale per non far arrabbiare la divinità. Salvo l’animale e saltiamo la foresta! Di ritorno verso il villaggio vediamo passare una processione di uomini e donne col il viso coperto di una sorta di cera bianca, i ragazzi mi spiegano essere un funerale tradizionale. Torno in albergo, arriva Rigobert che come promesso è venuto a salutarmi e ci abbracciamo promettendoci di rivederci. Suo fratello vive in Sicilia, chi lo sa…
Prendo uno zem e faccio rotta verso Gran Popo, località balneare turistica, al confine tra Togo e Benin. Il ragazzo dell’albergo mi ha detto che Ecobenin gestisce un piccolo lodge sulla spiaggia chiamata Avlo Plage perso tra i palmeti a dodici chilometri dal villaggio più vicino. Quale migliore occasione! Arrivo e non c’è nessuno, chiamo il numero che trovo sul cartello del lodge e dopo poco arriva Gauthier, un ragazzo che gestisce il posto quando arriva qualche turista. È un luogo veramente paradisiaco, ci sono solo palme, l’oceano e questo piccolo lodge in legno con due stanze. Sono ovviamente l’unico turista e Gauthier mi affida a Laurent, un signore che vive un centinaio di palme più avanti per farmi girare i dintorni. Laurent è un simpatico pensionato che ha viaggiato tantissimo per lavoro per l’Africa. Ha fatto il muratore in Camerun, in Guinea Equatoriale e in Gabon ma poi è tornato qui, nel suo Benin, su questa striscia di sabbia che segna la fine del paese.
Arriviamo alla Bouche du Roi, dove il fiume Mono che segna il confine tra Togo e Benin si butta nell’oceano. Ci sono alcuni ragazzi che pescano, Laurent si mette a scavare e trova tre uova di tartaruga. È periodo di deposizione delle uova, tante tartarughe vengono qui a deporre e Laurent per salvarle dalle fauci degli animali che girano per la spiaggia, le raccoglie e le fa schiudere nella sabbia in un recinto privato, una sorta di nursery per baby-tartarughe.
Prendiamo la piroga e andiamo a visitare l’isola del sale, un’isola sul fiume Mono dove gli abitanti vivono estraendo il sale in maniera tradizionale e lo rivendono. Vengono con noi quattro ragazze francesi incontrate sulla spiaggia.
Torno al lodge, Gauthier mi aspetta. Chiacchieriamo, mi racconta che la vita qui è dura. Per gestire il lodge percepisce uno stipendio di 20.000 cfa al mese, l’equivalente di 30 euro. Mi dice che per vivere “bene” e farsi una famiglia gliene servirebbero almeno 50.000. Stiamo parlando di 75 euro al mese. Ci penso, penso a me. Penso a noi. Non voglio dire frasi banali, ma potete capire che sensazione mi abbia lasciato. È simpatico Gauthier, ride sempre mostrando quei denti bianchissimi che risaltano sulla sua pelle scura.
Mi propone di giocare a awalé, un gioco che qui tutti fanno simile alla dama in cui devi far circolare 48 biglie, che in realtà sono semi di un albero, dentro a 12 buchi. Mi insegna ma ovviamente mi batte inesorabilmente. Siamo seduti a bordo del mare, il sole sta tramontando.
Metto gli infradito, mi incammino sulla battigia. Non c’è nessuno, continuo a camminare, i granchi si rincorrono sulla sabbia, sono tantissimi e devo fare attenzione a non calpestarli. Arrivo fino alla bocca del fiume ed ecco arrivare qual momento di gioia assoluta, quel senso di libertà piena.
Qui l’Africa termina il suo percorso, questa terra meravigliosa che ogni giorno mi stupisce e mi anima di vita e di incontri, guarda verso il nuovo mondo. Ho toccato la felicità, è stato un attimo. Forse quell’attimo per cui vale la pena vivere.