Su queste pagine, sono descritti i viaggi e gli incontri del mio lungo peregrinare in giro per il Mondo. Alle persone che ho incrociato sulla mia strada sono dedicate tutte le parole che ho scritto perché, se è vero che il viaggio è fatto di luoghi, l’essenza dell’andare per me sta negli incontri spesso fortuiti che facciamo e che lasciano per sempre una traccia dentro di noi. Sono storie di persone che spesso non rivedremo più per il resto della vita ma che arricchiscono per sempre il bagaglio delle nostre esperienze e che, in qualche modo, restano appese alla nostra esistenza.
Per una volta, però, invece di raccontare la storia di qualcun altro voglio fare un’eccezione e raccontarvi la mia, di come è nato Terre Mai Viste Prima e del perché si chiami proprio così. Di come sono arrivato fin qui, di chi sono stato e di chi sono ora. Del perché nell’epoca in cui aprire un blog è diventata consuetudine per tutti, ho deciso anche io di fare questo passo.
Se avrete voglia, ascoltate!
Ho iniziato a viaggiare da solo quando avevo poco più di vent’anni. Ricordo come se fosse ieri quel primo viaggio: ero andato a trovare un mio amico romeno a Timișoara conosciuto l’anno prima nella mia città. Avevamo deciso di trascorrere qualche giorno insieme, il programma prevedeva che andassimo alla scoperta della Transilvania. Amelian, questo il nome del mio caro amico, non poteva però trattenersi più di qualche giorno, così avevo deciso di acquistare il volo di ritorno qualche giorno più in là e proseguire da solo.
Quella sera eravamo a Brașov, in una taverna, avevamo mangiato un’ottima ciorbă, la zuppa tipica romena. Dopo cena, Amelian sarebbe ripartito e io sarei rimasto da solo. Avevo 22 anni, avevo già viaggiato all’estero sempre in compagnia di gruppi di studenti dell’associazione di cui facevo parte. Ma questa volta avevo deciso di provare a cavarmela da me. Quella notte, nella stanza di una piccola guesthouse gestita da una signora di antica origine ungherese, è iniziata la mia storia di viaggiatore. E in qualche modo, quella notte, anche se non lo sapevo, è nato Terre Mai Viste Prima.
Sono passati tanti anni, diciassette per la precisione, e i viaggi da solo in giro per il Mondo sono stati tantissimi. All’inizio mi sono dedicato agli stati dell’Europa Orientale. I Balcani, in particolare, sono diventati una dolce ossessione dove ancora oggi torno almeno una volta all’anno per esplorarne un pezzettino ancora sconosciuto. Trovo questa regione della nostra cara vecchia Europa così autentica, verace, densa di quell’umanità che a volte non riesco più a vedere per le strade della mia città sempre così proiettata sull’individualismo piuttosto che sullo “stare insieme”. Quei luoghi hanno scavato piano piano dentro di me una consapevolezza, quella dell’importanza del confronto. La certezza che l’arricchimento dato dalle nostre differenze e dalla contaminazione tra i popoli sia un dono preziosissimo, che ci aiuta a capire gli altri ma, prima di tutto, noi stessi.
Scriveva un importante musicista camerunese, Manu Dibango, “Non si può dipingere di bianco sul bianco, o di nero sul nero. Ciascuno di noi ha bisogno dell’altro per rivelarsi“. Questo per me è un concetto essenziale, sul quale ho provato a costruire tutti i miei viaggi e la mia vita.
Terminata la laurea in ingegneria, ho iniziato a lavorare in studi di progettazione ma quella dimensione sentivo non fosse la mia. A 27 anni ho lasciato per la prima volta il lavoro e sono partito insieme a un’amica per un’esperienza di tre mesi in Arizona per andare a contribuire alla costruzione della città utopica di Arcosanti, progettata dall’architetto Paolo Soleri e alla cui edificazione nei decenni hanno contribuito persone di tutto il mondo. È stata un’esperienza intensissima, unica, negli anni più belli e spensierati (o almeno, col senno di poi si ricordano così): gli anni in cui tutto può accadere. Anche ritrovarsi poi per caso a fare il cameriere in un matrimonio indiano a San Francisco che sai quando inizia ma non sai quando finisce (dopo tre giorni, ndr).
Ma la lotta contro me stesso, contro la mia natura zingara, è andata avanti anche negli anni successivi. Ho ripreso a lavorare come ingegnere per un po’, sempre insoddisfatto, sempre incasellato dove non volevo essere. Poi, mentre lavoravo in uno studio di architettura, scoprii un corso di management musicale. La musica, insieme ai viaggi, è una mia grande passione. Così, una volta a settimana, dopo studio mi fermavo a Milano, mangiavo in macchina un panino portato da casa e andavo al corso. Grazie a una serie di eventi propizi, nel giro di pochi mesi mi ritrovai a Torino come assistente di produzione di un’agenzia che organizzava concerti. In quegli anni, andare ad ascoltare i miei cantanti preferiti era la mia droga, decine di concerti e centinaia di chilometri in giro per l’Italia per inseguire quelle parole, quelle note, che mi hanno nutrito e continuano a farlo, nei momenti felici e in quelli bui.
Andò bene, benissimo, per più di un anno scorrazzai in giro per lo Stivale facendo quello che sognavo, godendomi i concerti dal backstage, conoscendo artisti e annusando una vita così piena di arte e magia. Ma poi un giorno finì, la mia agenzia perse il suo artista di punta e il mio lavoro non era più necessario. Non ebbi la forza, il coraggio forse, di portare avanti quel piccolo sogno e…potete immaginare…tornai a fare l’ingegnere.
Nel frattempo viaggiavo, dopo gli Stati Uniti, venne un viaggio importantissimo di quasi due mesi in Nicaragua, un paese misconosciuto dell’America Centrale dove per la prima volta sentii parlare di Rivoluzione, di Resistenza, di Ribellione all’Oppressione, di Autodeterminazione. Fu un viaggio che segnò una svolta, avevo trent’anni e tornai a casa con una nuova visione del Mondo. Avevo visto per la prima volta il dolore di un popolo, chi fossero i diseredati, gli ultimi, toccato con mano cosa fosse l’ingiustizia, dato una forma e dei confini al privilegio che, senza rendermene conto, avevo nell’essere italiano. Fu una tappa fondamentale della mia crescita come uomo e come viaggiatore.
Avevo una laurea in tasca, però, e non sapevo che farmene. Nonostante quelle finestre che ero riuscito ad aprire verso altri stili di vita e culture, al rientro pensavo che la sola strada possibile fosse trovarsi un lavoro perché i tempi per “mettere la testa a posto” ormai erano maturi.
Così, per caso, trovai lavoro in un’importante azienda di moda, ricominciai da uno stage nonostante l’età avanzata per questo genere di contratti e poi piano piano crebbi in azienda. Le responsabilità aumentavano, così come lo stipendio. Viaggiavo molto per lavoro, in Europa e Emirati Arabi, e quel lavoro mi permetteva di avere l’autonomia economica per fare la cosa che desideravo di più: viaggiare ancora, conoscere, esplorare i sentieri meno battuti del globo, incontrare persone e raccontare le loro storie. Durante un viaggio in Burkina Faso nel 2015, iniziai a scrivere, fu una cosa istintiva, quello che stavo vivendo in quel primo viaggio in Africa sub-sahariana era così forte, così diverso, così unico rispetto a quello che avevo vissuto fino a quel momento che quelle emozioni non potevano esaurirsi così. Dovevano essere fermate, raccontate, impresse per sempre per poter essere rilette e, in qualche modo, rivissute.
In quegli anni l’Africa era diventata un chiodo fisso, tornavo da quei viaggi meravigliosi e fantasticavo per un anno intero sul viaggio successivo, leggevo qualsiasi cosa parlasse di popoli africani, frequentavo associazioni e persone della diaspora. Vestivo il mio bravo abito da ingegnere ma dentro ribolliva il fuoco. E così è andata avanti per quasi nove anni, quelli in cui ho creduto di essermi costruito una buona stabilità, un compromesso accettabile nel quale andava bene anche non fare un lavoro che mi soddisfacesse a pieno, pur di poter poi “scappare” da quella realtà appena potevo.
Scrivevo in viaggio, ma poi tornavo a casa e soffocavo tutto. Non rileggevo più. La persona che avevo accanto mi spronava ad aprire tutto quel materiale, a metterci mano, a elaborarlo ma per me era impossibile, perché mi faceva male. Non avevo tempo, mi giustificavo. Una volta tornato in Italia, dovevo essere il precisissimo e impeccabile manager aziendale, magari un po’ fuori dalle righe rispetto ai colleghi, ma pur sempre un dipendente modello. Non potevo permettermi di rivivere quelle emozioni che quei viaggi scatenavano in me, perché non le avrei sapute gestire. Avevo un abito “italiano” che appena possibile toglievo per indossare quelli del backpacker che poi sapevo di dover togliere. Punto.
Pensavo andasse bene così. Pensavo che nella vita bisognasse saper fare compromessi con sé stessi. Pensavo che tutto sommato non potevo lamentarmi, avevo tutto quello che la società pensa sia buono e giusto. Pensavo…
Invece un giorno tutte quelle granitiche certezze sono andate in frantumi. Un piccolo evento, quasi banale, ha fatto vacillare quell’equilibrio precario. Una piccola pietruzza che si è spostata e ha fatto venir giù letteralmente tutta la montagna. In poche settimane, ho prima deciso di licenziarmi e poi di lasciare la persona che avevo a fianco da anni. Il mio mondo perfetto si era sgretolato, tutti i miei punti di riferimento spariti sotto i colpi della mia psiche impazzita. Sono stati mesi di atroci sofferenze, in cui sono caduto in uno stato psicologico di grande prostrazione: non vedevo più niente, solo macerie. Pensavo che tutto quello che avevo costruito fosse stato falso, non esistevo più…
Non è stato semplice tornare a “vedere”, rendersi conto che quegli abiti che per anni mi ero forzato di mettere, avevano in effetti creato una frattura gigantesca dentro di me. Che quello sdoppiamento non era per niente sano, non era rispettoso né di me né delle persone che mi stavano vicino.
E rendersi conto, parallelamente, che io non ero solo l’ingegnere modello con una casa, un lavoro, una relazione stabile. Che, anche se tutte quelle cose erano collassate contemporaneamente, qualcosa di me rimaneva.
Allora feci l’unica cosa che sapevo fare. Partii. Avevo paura in quel momento, pensavo di aver disimparato a viaggiare, di non esserne più in grado, di non averne le forze. E invece, per fortuna, mi sbagliavo. Caricai il mio zaino di pochi vestiti, una tenda, sacco a pelo, fornelletto e qualche provvista e presi un volo. Cominciai a camminare, macinare chilometri su strade e sentieri alla scoperta delle montagne della Grecia settentrionale e dei suoi villaggi in pietra. In quei giorni tornai finalmente a respirare dopo un’apnea durata sei lunghi e dolorosissimi mesi. Ero ancora vivo. Riccardo c’era ancora.
In quelle lunghe ore di cammino, da solo immerso nella natura e nei paesaggi immensi delle aspre montagne epirote, capii che dovevo finalmente assecondare la mia natura. Non vergognarmi più di sentirmi “diverso”, non nascondermi. In quei giorni è nata la consapevolezza che tutte quelle esperienze incredibili, quegli incontri stupefacenti dovevano trovare una casa. La mia casa. Questa casa.
Quando tornai iniziai a pensare a come volevo dovesse apparire questa casa. Pulita, ordinata, sincera, accogliente come le case tagiche, colorata come i tessuti burkinabe, ma anche polverosa come le strade dell’Africa, incasinata come i mercati del Medio Oriente: doveva rappresentare tutto quel bagaglio di vita che in vent’anni avevo accolto e fatto mio. Ma…certo, serviva un nome. Un nome che la rappresentasse a dovere. Il nome era fondamentale ma stentava ad arrivare.
Partii di nuovo, lo scorso inverno, questa volta per la Bosnia, il cuore pulsante di quelle terre balcaniche che ogni volta mi avevano saputo regalare momenti di vita indimenticabili. Era la mia seconda volta in Bosnia, ma questa volta decisi di esplorarla lentamente e approfonditamente, lasciando fluire l’energia che sentivo essere rinata dentro di me. In quei giorni, ascoltai molta musica nei lunghi tragitti in bus. Una canzone in particolare in quel viaggio mi stava ossessionando, ogni volta che partiva casualmente dal telefono, non riuscivo a staccarmene, sentivo che raccontava profondamente di me, sentivo che mi stava dicendo qualcosa di importante ma non capivo cosa…
Visitai Srebrenica, toccai ancora una volta il dolore, questa volta il riverbero di quel dolore risuonava profondamente in me. E quando tornai, capii che dentro le parole di quella canzone c’era il nome della mia casa.
Stavo correndo nel parco qui a Milano e, ancora una volta, partì il pezzo in cuffia. “Ma certoooooo” iniziai a urlare come un ossesso. “Il nomeeeee!!!” e iniziai a cantare a squarciagola, ripetendo come un mantra quelle parole che sapevo a memoria, come una preghiera.
Quella canzone si chiama Tikibombom, cantata da Levante, e dice così:
“Ciao tu, animale stanco
Sei rimasto da solo non segui il branco
Balli il tango mentre tutto il mondo
Muove il fianco sopra un tempo che fa
Tikibombombom
Hey tu, anima indifesa
Conti tutte le volte in cui ti sei arresa
Stesa al filo teso delle altre opinioni
Ti agiti nel vento
Di chi non ha emozioni
[…]
Noi, siamo luci di un’altra città
Siamo il vento e non la bandiera, siamo noi
Tikibombombom
Noi, siamo gli ultimi della fila
Siamo terre mai viste prima, solo noi”
Levante – Tikibombom
Ed è così che quella canzone che mi descrive esattamente, che sento calzarmi come un vestito di sartoria, ha regalato il nome della mia casa.
Le terre mai viste prima di cui parlo in queste pagine non sono luoghi inesplorati dall’uomo, le terre mai viste prima siamo noi. Siamo noi sognatori che non trovano riposo. Siamo noi, gli ultimi della fila. Siamo noi, quella disordinata umanità che per anni ho incrociato e da cui ho attinto linfa vitale, energia, in un mutuo scambio silenzioso ma potentissimo.
Un ultimo aneddoto: pochi giorni dopo quella corsa rivelatrice in cui nacque Terre Mai Viste Prima, andai a Trieste per il film festival dedicato al cinema dell’Europa Centro-orientale. Grazie alle storie raccontate sui social dell’ultimo viaggio in Bosnia, conobbi una persona speciale che, per un gioco del destino, era anch’essa a Trieste. Un giorno, allo storico caffè San Marco, ci trovammo per un brunch ma lui non era solo. Al suo tavolo – non potevo credere ai miei occhi – era seduto Paolo Rumiz, scrittore e viaggiatore triestino che con la sua penna ha saputo come pochi altri raccontare luoghi e persone. Comprai nella libreria del caffè il suo libro “Maschere per un massacro” in cui racconta i tragici eventi della guerra in ex-Jugoslavia.
Mi avvicinai al tavolo dove il mio amico stava chiacchierando con lui, gli porsi il libro e Paolo mi fece una dedica. Quando uscii dalla libreria e lo aprii, non potevo credere ai miei occhi: Rumiz aveva disegnato un albero scosso dal vento e, sopra la sua firma, aveva inciso queste parole: “Buon vento, Riccardo”.
“Noi siamo il vento e non la bandiera” dice la canzone. Paolo non aveva disegnato un albero, Paolo aveva saputo disegnare il Vento. Paolo aveva dato una forma alle mie Terre, alla mia casa. Ed è così che è nato anche il logo di Terre Mai Viste Prima.
In pochissimi giorni con una veemenza e una forza che non so spiegare, è nata la mia nuova casa che ora è qui per chi ci vorrà entrare: aperta, senza porte!
Terre Mai Viste Prima è dedicato a tutti i sognatori.
Terre Mai Viste Prima è dedicato a Pippa Bacca.
Terre Mai Viste Prima è dedicato al mio papà.