Camerun – giorni #11-12
Quando viaggio, ho sempre un libro-feticcio che mi accompagna. Cerco per giorni un libro che parli di un luogo del paese che vado a visitare e in qualche modo quel libro mi detta la rotta che mi porterà verso quel luogo.
Quest’anno il libro si intitola “Il giovane antropologo” di Nigel Barley, il racconto della prima spedizione sul campo di questo famoso antropologo inglese che per un caso fortuito arrivò negli anni ’70 in Camerun per studiare il popolo dowayo, un’etnia indigena della regione Nord che abita queste terre dalla notte dei tempi.
È un libro di stampo antropologico ma assolutamente godibile, in realtà un romanzo ricco di peripezie e avventure che da queste parti non mancano mai.
La “capitale” del popolo dowayo è Poli, una città situata in una bellissima valle tra Ngaoundéré e Garoua. Per arrivarci, da Ngaoundéré occorre prendere un bus fino al cosiddetto Carrefour de Poli e da lì farsi caricare da una moto che percorrerà più di 30 km di strada sterrata per raggiungere il capoluogo del dipartimento di Faro tra buche, fango e ponti distrutti.
Quando arrivo a Poli, sono veramente esausto, dopo ore di attesa, bus che si ferma di continuo e moto-taxi che mi spezza la schiena. Chiedo al moto-taxista se esistono alberghi in questa città che a tutti gli effetti è solamente un grande villaggio. Niente da fare. Mi dice che c’è solo una missione cattolica gestita da suore che accolgono le persone di passaggio. Arrivo alla missione, sporco e maleodorante, incontro subito Suor Esther, una suora camerunese che mi accoglie con un grande sorriso e curiosa di vedere un viaggiatore solitario da queste parti. Mi dice che non c’è problema, posso restare da loro nella camera per gli ospiti. Poso lo zaino e conosco subito l’altra anima della missione ovvero Suor Céline, una suora ciadiana simpaticissima e dalla risata contagiosa. Non mi sento molto bene, mi sono raffreddato nei giorni scorsi con tutta la pioggia presa così ceno con le suore e le due novizie presenti nella missione e vado a coricarmi non prima di aver preso un’aspirina.
La mattina mi sveglio presto ed esco dalla missione per vedere che aria tira e per conoscere qualcuno che mi porti a scoprire i “mitici” — almeno per me — dowayo.
Nella piazzetta del campo di calcio vicino alla missione, vedo due ragazzi, ci salutiamo e mi fermo a chiacchierare con loro. Si chiamano Benito — come mio padre! — e Alain e sono cugini, ma qui tra cugini ci si chiama comunque “frères” – fratelli. Chiedo subito di che etnia siano, dal momento che nella valle del Faro sono innumerevoli le etnie presenti. Ciascuna occupa delle aree della valle diverse ma a Poli, essendo il capoluogo, queste si mescolano.
“Dowayo” è la loro risposta. “Bum” dice la mia testa, strike al primo colpo. Gli racconto del libro, di cui ovviamente ignorano l’esistenza, glielo mostro e anche se è in italiano, leggono la parola “dowayo” ripetuta in quasi tutte le pagine. Dico che sono venuto per conoscere la loro cultura, le loro tradizioni, la loro terra. Li inondo con un entusiasmo del quale penso non afferrino il motivo. Mi dicono che loro passano le loro giornate al campetto quando non hanno niente da fare. Alain ha 20 anni ed è ancora studente, mentre Benito ne ha 24 e ha smesso di studiare perché non aveva soldi per pagare la retta. Nel frattempo altri ragazzi si radunano per constatare coi loro occhi l’arrivo dello straniero. Benito e Alain mi ispirano fiducia, è una sensazione che provo a pelle con le persone. Lo capisco dallo sguardo e dalla loro curiosità che non tradisce secondi fini.
Chiedo loro se conoscono i villaggi dowayo della zona che ancora mantengono vive le loro tradizioni. Alain mi dice che suo padre è originario di Kongle, proprio il villaggio in cui Nigel Barley visse nel suo anno di studio antropologico.
Cerchiamo una moto, contrattiamo il prezzo con il proprietario per affittarla per tutta la giornata e in un attimo siamo in sella, Alain alla guida e io e Benito dietro.
La valle del fiume Faro è un posto incantevole, una distesa di campi e boschi attraversati da un’infinità di piccoli rivoli che rendono la terra molto fertile. È per questo che così tante etnie si dividono la valle ed è per questo che in anni remoti anche i peul, i pastori nomadi, si sono insediati da queste parti stabilizzandosi e dedicandosi sia alla pastorizia, loro attività elettiva, che alla coltivazione. Campi di cotone, mais, arachidi, miglio e riso si perdono a vista d’occhio e ogni tanto dal verde sbucano i caratteristici tetti di paglia a punta delle capanne di terra che compongono i villaggi.
Quando arriviamo a Kongle, il villaggio è quasi deserto. In effetti nella stagione delle piogge, i dowayo passano l’intera giornata nei campi e solo vecchi e bambini restano a casa. Cerchiamo il capo villaggio ma anche lui è assente così ripariamo sull’anziano del paese. È un nonnino arzillo con un solo occhio e mi accoglie con grandi cerimonie. Nel frattempo Alain e Benito mi hanno insegnato alcune parole dowayo per cui presento i miei saluti nella lingua locale e la seconda sposa del nonno tira subito fuori una panchetta di legno per farmi accomodare. C’è una ferrea gerarchia quando ci si siede in un villaggio: l’ospite si siede sulla panchetta, l’anziano su uno sgabello alla sua stessa altezza mentre tutti gli altri, donne, giovani, bambini, si siedono per terra. Alain e Benito parlano con l’anziano nella loro lingua, spiegano la mia visita e la conversazione resta ovviamente circoscritta a dei lunghi convenevoli che si protraggono per una buona mezz’ora, finiti i quali porgo, tenendola nascosta nel palmo della mano, una piccola offerta all’anziano così come da buona prassi dowayo.
Usciamo e vediamo il vecchietto che si allontana canticchiando per andare a controllare i suoi buoi, chiusi in un recinto e simbolo del suo status sociale. Alain e Benito mi dicono che è contento per la “mancetta” ed io per lui.
Visitiamo il villaggio, sono tutte capanne di fango, raccolte in piccole corti che corrispondono alle varie famiglie. In mezzo a ciascuna corte, vi è un piccolo granaio.
Continuiamo a gironzolare per campi e villaggi e i ragazzi mi mostrano un villaggio peul, abbastanza simile per struttura a quello dowayo ma dove i visi cambiano radicalmente. Non più i tratti tondi e negroidi degli indigeni dowayo, ma le slanciate figure e i lunghi visi enigmatici dei peul. Sono stupendi e un po’ inquietanti, ma mi accolgono con altrettanta generosità e ne approfitto per lasciare qualche regalo ai bambini.
Passiamo poi a casa della mamma di Alain, che non vive più con lui in quanto il padre, ora morto, si era risposato con un’altra donna.
Sta preparando il bouirou, ovvero la birra dowayo, che altro non è che una variante della birra di miglio già assaggiata in altri paesi dell’Africa occidentale. Rispetto al choukouchou togolese è solo un po’ più densa e torbida. Me ne versano una calebasse e brindiamo a questa nuova amicizia.
Mi riportano poi alla missione: mi aspetta una lauta cena insieme alle suore e per la prima volta da quando sono qui, mi viene servito persino un dessert al cioccolato!! Incredibili le suore!!
Si chiude così la mia prima giornata nella terra dowayo, l’avventura è appena iniziata.