Tajikistan — Giorni #5–6
Pamir, cinque lettere, un luogo che già solo a immaginarlo ti sudano i polpastrelli delle mani, ti tremano le gambe per l’emozione. Il Tetto del Mondo, lo chiamano. Quando ho iniziato a programmare il mio viaggio sono partito dalla certezza che questo luogo di confine sarebbe stato il cuore del mio percorso. Ho un’insana propensione verso i luoghi di frontiera, dove le culture si incontrano e si contaminano, dove la vita scorre uguale a sé stessa per secoli, immutata, con le sue tradizioni e i suoi popoli. Giungere qui, nel cuore dell’Asia, dove alcune delle più alte vette del Mondo riescono a toccare il cielo, era praticamente un sogno.
Arrivare da Dushanbe a Khorog, il capoluogo della provincia del Gorno Badakhshan ovvero l’oblast dove è situato il Pamir, è un lungo viaggio di quattordici ore di jeep o sedici ore di marshrutka. La maggior parte dei turisti, cicloviaggiatori a parte, decide di affidarsi a un driver che li scorrazza in giro per strade impervie. Decido di tirare dritto per la mia strada e continuare a viaggiare con la gente, come piace a me. Non è viaggio senza incontro, non è strada senza fatica.
Per spezzare il viaggio, mi fermerò a metà strada a Kalai Khum. Passa a prendermi Murad in ostello a Dushanbe, vuole assolutamente salutarmi. Porta anche suo figlio e insieme mi accompagnano al terminal dei bus. Sono fortunato, una jeep di ottimo aspetto sta per partire per Khorog e mi accomodo su uno dei sedili posteriori. Attraversiamo tutta la arida pianura del sud del Tajikistan, le temperature sono roventi e prossime ai 40 gradi. A Dangara, famosa sua malgrado per l’unico attentato perpetrato dall’ISIS in Asia Centrale lo scorso anno a danno di alcuni ciclisti europei, salta su un giovane. Si siede a fianco dell’autista.
Quando ci fermiamo per pranzare, mi avvicina. Si chiama Qoimdod — i nomi delle persone in questa parte di mondo sono impossibili da ricordare — parla abbastanza bene inglese e pranziamo insieme: sta tornando dalla sua famiglia nella Bartang Valley dopo essersi andato a iscrivere all’università di Dangara. La sua valle è un luogo, a quanto dicono, magico e perso tra montagne altissime ai piedi di ampi ghiacciai. Senza auto propria, è molto complesso raggiungerla e servono molti giorni di viaggio, per questo mio malgrado ho dovuto estrometterla dal percorso.
Quando è tempo di rimettersi in marcia, ci scambiamo i numeri di telefono e saliamo sulla jeep. Lui prosegue fino a Khorog, io prima del tramonto scendo come previsto a Kalai Khum e trovo una pensioncina niente male con una terrazza che dà sul fiume.
Kalai Khum è veramente uno di quei luoghi di passaggio che sa di porto e approdo. Anche se non c’è il mare. Di fronte, l’immenso fiume Panj e sull’altra sponda l’Afghanistan! Corro al fiume, passando attraverso case sgangherate e canali di scolo a cielo aperto. Il sole sta tramontando e di fronte a me, le montagne del tanto temuto Afghanistan si stagliano nella penombra. È un’immagine che mi resterà impressa a lungo, c’è un edificio dall’altra parte, sembra una scuola o qualcosa del genere ma non c’è anima viva. Rientro alla guesthouse, ci sono i soliti impavidi ciclisti, ceno con loro e vado a letto presto.
La mattina appena sveglio, accendo il cellulare e trovo un messaggio di Qoimdod. Mi dice che invece di partire quel giorno stesso per il suo villaggio, ha deciso di fermarsi a Khorog un giorno in più per aspettarmi e che, se mi avesse fatto piacere, avrei potuto dormire nella casa di sua nonna.
Continuo a pensare che il viaggio sia fatto di momenti irripetibili, casualità e energia che ci portiamo addosso. Non può essere altrimenti.
Ovviamente accetto la proposta e corro in strada per cercare un mezzo per Khorog. Questa volta sono meno fortunato, mi carica una marshrutka semi vuota che per quasi un’ora gira per il paese per trovare altri clienti. Sono quasi le 9 e finalmente partiamo. La strada è mal messa, in parte sterrata, in parte asfaltata con enormi buche. Gli inverni sono freddissimi e molto nevosi, non è facile manutenerla. In compenso regala emozioni indescrivibili, per duecentocinquanta chilometri corre lungo il fiume Panj proprio sulla frontiera tajiko-afghana segnata appunto dal fiume. Il Panj, che diventa poi Amu Darya dopo la confluenza con il fiume Vakhsh, è un fiume che appartiene al mito. Era Oxus per i greci e segnava il limite per la civiltà ellenistica oltre il quale iniziava l’ignoto.
Rimango per le otto ore del viaggio con il naso attaccato al finestrino, il panorama è stupefacente: sull’altra riva corre una singola strada sterrata per centinaia di chilometri che unisce i villaggi afghani che si susseguono uno dopo l’altro. Case di fango, del colore delle montagne, crude, aride, nude. In corrispondenza dei villaggi, tocchi di verde delle piantagioni e delle coltivazioni esplodono come per affermare la presenza dell’uomo. È uno scenario primitivo, affascinante, ogni tanto si vede passare qualcuno in moto oppure passeggiare. In certi punti la distanza tra le due rive è così breve che sembra quasi di poter toccare l’altra sponda. Sembrerebbe un gioco da ragazzi tuffarsi in quelle acque del colore delle montagne, che quasi non si riconoscono da tanto sono cariche di terra, e poter dire “eccomi, sono in Afghanistan!”. Ma sarebbe impossibile e pericolosissimo, d’altronde in più di quattrocento chilometri ci sono solo tre ponti, accuratamente e militarmente presidiati.
La marshrutka prosegue sballottandoci come marionette, ma è talmente bello che non mi importa. In certi punti il fiume è obbligato a passare in gole talmente strette che diventa torrentizio, le acque ruggiscono e fanno la lotta generando onde altissime. Quando siamo quasi a Rushan, si apre in una piana fertile e le acque diventano placide, irriconoscibili.
Arriviamo a Khorog, chiamo Qoimdod che viene a recuperarmi a piedi al bazar. La nonna vive vicino all’aeroporto, una pista asfaltata che riceve circa un volo a settimana dalla capitale Dushanbe e sulla quale i bambini giocano a pallone.
Arriviamo a casa e Qoimdod mi presenta la sua famiglia: la nonna è un’arzilla vecchietta di 82 anni gobbuta che mi sorride con la sua bocca sdentata. È dolcissima. Con lei la sorella minore, alcuni dei figli ovvero gli zii di Qoimdod e le cugine. Vivono in una grande casa tradizionale, tinta di bianco e azzurro, con un ampio portico sul fronte. Mi fanno accomodare, come ormai sono abituato a fare, su cuscini e tappeti nel portico e portano pane, tè, miele e una superba marmellata di lamponi, che sa di casa e famiglia come quella di mia mamma. Non mi sottraggo e chiacchiero con Qoimdod e il simpaticissimo zio Dushanbe — si chiama Lunedì, come la capitale. Qoimdod è un ragazzo timido, con la pelle chiarissima come quella della sua gente della valle di Bartang e un taglio degli occhi indefinibile. È un mix di fisionomie che non so decifrare. Mi parla della sua gente, dei Pamiri, ed è la mia iniziazione a questo popolo stupefacente.
Le genti di queste montagne parlano una lingua diversa dal tagiko, anch’essa iranica, ma totalmente incomprensibile a quelli della capitale. La lingua Pamiri è un patrimonio dell’umanità parlata ormai da poche decine di migliaia di persone e ogni valle ha il suo dialetto, diverso da quello della valle confinante. Ascolto, ha un suono più asciutto rispetto al tagiko, con meno influenze arabe, quasi “tedesco” alle mie orecchie inesperte. I Pamiri, inoltre, sono musulmani sciiti ismaeliti, al contrario dei tajiki che sono sunniti. Praticano un islam moderato, le donne sono quasi tutte a capo scoperto o con foulard usati a mo’ di orpello più che per nascondere il capo. La loro guida spirituale è il potente e ricco Aga Khan, che vive in Svizzera ma non dimentica i suoi fedeli. Per questo, tramite la sua fondazione, finanzia diversi progetti in queste valli che permettono di migliorare la qualità della vita di un popolo che vive in un territorio completamente isolato dal resto del Mondo. In ogni casa pamiri c’è una foto dell’Aga Khan, di fianco a quella dei propri avi.
Qoimdod mi chiede se voglio vedere l’interno della casa tradizionale pamiri, così entro nel soggiorno e rimango a bocca aperta. Una stanza interamente coperta di legno illuminata dall’alto da un lucernario incorniciato in quattro cornici concentriche quadrate che richiamano gli elementi fondanti dello zoroastrismo: acqua, fuoco, cielo e sole. Prima dell’islamizzazione, questi popoli erano devoti al Dio del Sole Zoroastro e qualcosa è rimasto nella loro cultura.
Decidiamo poi di passeggiare fino ad uno dei ponti sul fiume Panj che portano in Afghanistan. Chiacchiero con Qoimdod che, senza riserve, mi racconta dei suoi sogni e dei suoi progetti. Ha 22 anni, vuole continuare a studiare, si è iscritto a economia, e poi sogna la Germania. Il fratello vive in Russia, a Mosca, ma a lui non piace, anche se non ci è mai stato. Purtroppo, mi dice, in Tajikistan il futuro è molto incerto, lo stipendio medio di un insegnante non arriva ai 100$ al mese. Trovare lavoro è un miraggio e quasi tutti, agevolati dal sapere il russo, partono per Russia o Kazakhstan per trovare migliori fortune e mandare qualche soldo a casa.
Arriviamo al ponte che ormai è buio e ci aspettano a casa per la cena. Quando rientriamo, troviamo la “solita” tavola imbandita, il nan, il tè e il calore dell’accoglienza pamiri. Chiacchiero con Dushanbe, che zoppica in un inglese incerto ma mi racconta dei suoi venticinque anni di lavoro di costruzione di strade e ponti all’epoca dell’Unione Sovietica. Sento nella sua voce la malinconia di chi in quegli anni aveva creduto in quell’idea. Chiedo a Qoimdod cosa ne pensa, a lui non piace ed è felice che il Tajikistan sia un paese indipendente. Gli chiedo se sente di appartenere a una nazione e che cosa lo identifichi come tajiko. Mi guarda, mi dice che non lo sa con un filo di voce.
Si fa tardi, la zia di Qoimdod ci prepara i “letti” nella veranda. A lui piace dormire fuori perché in casa fa caldo. Mi sotterro sotto una spessissima coperta e sogno, sogno, sogno…