Tajikistan — Giorni #12–14
Non è stato facile lasciare la Wakhan Valley. Ogni luogo, nei miei viaggi e nei ricordi che porto a casa, è indissolubilmente legato alle persone che incontro. E ogni volta che devo partire da un luogo dove sono stato bene, anche per pochi giorni, è sempre difficile riprendere la strada. Questa volta ancora non sapevo che il distacco sarebbe stato così netto.
Preparo i bagagli con Gabriele, trovare un mezzo per raggiungere l’altopiano del Pamir partendo dalla Wakhan sembra sia un’impresa difficile a meno di non pagare profumatamente un autista. Non abbiamo fretta e attendiamo che passi qualcuno. A metà mattina, ecco la nostra auto con due tagichi che devono raggiungere Murghab. Contrattiamo, dal momento che è un viaggio impegnativo attraverso un passo di montagna a 4.300m di altitudine. Riusciamo ad accordarci e saliamo. La strada è totalmente sterrata e attraversa scenari meravigliosi. Quando siamo in cima alla strada che sale da Langar, ci voltiamo e rimaniamo abbagliati dal bianco accecante dei ghiacciai dell’Hindu Kush. Le montagne afghane sempre a fianco a noi sembrano fatte di fango e il Panj è poco più che un torrente di un azzurro vivido.
Ad un certo punto, strizzo gli occhi. Non credo a quello che vedo, in lontananza due gobbe maestose si stagliano sul dorso di una bestia enorme. Chiedo al nostro amico autista di fermarsi e mi avvicino alla creatura: è un cammello battriano, un camelide che vive ad altitudini elevate in varie zone dell’Asia Centrale. È stranissimo vedere un cammello a 4.000m di altezza! Passiamo il check-point dei militari, poi continuiamo a salire e ci fermiamo da una famiglia tagica che vive in una catapecchia in mezzo al nulla proprio davanti ad un lago verdissimo. Ci sfamano senza chiedere nulla in cambio. La strada continua a essere mal messa e incrociamo un’altra auto in panne al lato della strada. Qui è buona pratica, anzi direi legge morale, fermarsi ad aiutare quando qualcuno è in difficoltà. Sarà che prima o poi tocca a tutti vista la brutalità delle strade…
Dopo quattro ore, raggiungiamo la famigerata Pamir Highway, ovvero la strada costruita dai sovietici per superare le montagne del Pamir. È la seconda strada più alta del Mondo, e si sviluppa tra i 2.500m e i 4.600m di altitudine, circondata da montagne che superano i 6.000m. Una vera pazzia averla costruita e ancora più pazzi i ciclisti che decidono di percorrerla. Ne incontriamo uno, una tedesca in viaggio dalla Germania a Singapore. Diventa il nostro eroe di giornata!
Il primo paese che si incontra si chiama Alichur, una manciata di catapecchie buttate a casaccio su un altopiano infinito. Ci fermiamo per pranzo, subito notiamo il cambio delle fisionomie. Questa zona del Tajikistan è abitata in maggioranza da kirghizi, dai lineamenti mongolici. Il ragazzo del bar ci dice che circa il 70% della popolazione è kirghizo, il resto pamiri.
Proseguiamo: gli scenari dell’altopiano sono maestosi, infiniti. La strada dritta come un fuso per chilometri sembra non finire mai.
Quando arriviamo a Murghab, la “città” più importante dell’alto Pamir, rimango sconcertato. Più che una città, è un insieme maldestro di case, poste su due strade parallele senza alcuna grazia. Troviamo una guesthouse in una bella posizione defilata con vista su tutta la vallata e scendiamo a scoprire il paese. Confermo la mia prima sensazione: è un luogo senza grazia, uno di quei posti di passaggio che nemmeno i suoi abitanti sembrano amare. Sporco, poco accogliente, il bazar è un ammasso di container accostati uno all’altro. Parlo con Saihler, il gestore della guesthouse, che è nato e cresciuto qui. Mi dice che la città è nata insieme alla costruzione della Pamir Highway e che la vita lì è molto complicata. In inverno, che dura in pratica da metà ottobre a maggio inoltrato, si possono raggiungere anche i 50 gradi sotto zero, le giornate passate in casa sembrano infinite. Solo in estate grazie al passaggio dei turisti e cicloviaggiatori, la vita del paese si anima un po’. Mi racconta che fino al 1991, quando cadde l’Unione Sovietica, avevano l’elettricità che è poi mancata per venticinque lunghissimi anni dopo la sua dissoluzione. Nel 2016, una benefattrice tedesca ha donato alla città un impianto di produzione idroelettrica e a Murghab è tornata la luce. Vivere qui già mi sembra impossibile, senza nemmeno l’elettricità una sfida che solo l’uomo con la sua resilienza può vincere!
In guesthouse c’è una bella atmosfera. Con noi un australiano con la moto in panne e in perenne ricerca di una soluzione per poter andarsene e un tedesco, Hans, con una storia veramente singolare. A cena ci racconta che lui e suo fratello sono nati vicino a Bishkek, la capitale del Kirghizistan. I nonni erano stati deportati in Asia Centrale dopo la Prima Guerra Mondiale insieme a tanti altri tedeschi che vivevano in Ucraina. Quando l’Unione Sovietica crollò, il governo tedesco attuò un programma di rientro protetto e i genitori ebbero la possibilità di tornare in Germania. Per i primi anni, lui e il fratello crebbero in una sorta di campo profughi. Così Hans è partito da Istanbul alla ricerca della sua casa e delle sue origini. Fino a Dushanbe in autostop, per poi acquistare una bici e raggiungere la destinazione pedalando. Dice che ha le foto della sua casa, costruita dal nonno in stile nordico. Andrà a citofonare ai kirghizi che ora la abitano e dirà “Qui sono nato io!”. È un pazzo, ma gli ho voluto bene per quelle due giornate in cui siamo stati insieme.
Il giorno dopo rimaniamo a Murghab per acclimatarci, ma il sottoscritto ha una delle sue geniali idee suicide. Affitto una bicicletta per emulare i prodi cicloviaggiatori e prendo la strada sterrata che segue il fiume per esplorare la valle. Una passeggiata — penso — visto che è quasi in piano. Ecco, considerate che quel “quasi” significa dolci discese e corrispondenti salite, unite al fatto che a 3.600m di altitudine l’aria è rarefatta e anche camminare fa mancare l’aria. Il prode Campanella dopo dieci chilometri in scioltezza inizia a sentire la fatica e a cedere sui pedali, scendendo a spingere anche di fronte a salite ridicole.
Dopo un po’ di sacramenti, un’apparizione si manifesta in mezzo ad un prato verdissimo proprio di fianco al fiume: è una yurta di nomadi kirghizi. Vedo due uomini che stanno falciando l’erba. Non ci penso due volte, mollo la bici sulla strada e con fare circospetto mi avvicino. Non ho ancora incontrato kirghizi, men che meno nomadi. Non so che reazione possano avere nel vedere un estraneo. Raggiungo la yurta, saluto i due uomini che ricambiano sorridenti. Dalla yurta escono tre bambini con le facce tonde e gli occhi a mandorla. Il più piccolo è simpaticissimo. Mi invitano ad entrare, fuori tira un vento freddo ma appena dentro sento il tepore della stufa che sbuffa tramite un camino fuori dalla yurta. La madre sta preparando il pranzo e, manco a dirlo, oggi sarò il loro ospite inaspettato. Ci raggiungono i due uomini, mi fanno le solite domande sulla mia provenienza e la madre stende la tovaglia per terra e distribuisce il pane. Secco, raffermo, ma il pane non può mai mancare sulle tavole dell’Asia Centrale.
Il pasto è a tutti gli effetti una sorta di “casöla” alla kirghiza ovvero un intruglio a base di verze e patate con pezzi di carne non meglio identificati. I bambini sono divertitissimi dalla mia insolita presenza e vogliono giocare e fare foto che poi riguardano con ilarità. La loro ospitalità è cordiale, certamente più discreta, orientale direi, rispetto alla “meridionalità” chiassosa dei tagichi. Dopo un certo numero di tazze di tè, saluto la banda di nomadi e riprendo la via per Murghab.
Arrivo a metà pomeriggio, sfiancato, senza fiato e bruciato dal sole. La tedesca di ieri che era diventata eroe di giornata, viene innalzata a semi-Dio con altarino e cero da venerare prima di andare a dormire.
Stasera ci sono anche tre ragazzi che stanno correndo la Mongol Rally, ovvero la pazza corsa con auto fino ad un massimo di 1.2 di cilindrata, possibilmente di vecchia o vecchissima immatricolazione, da Praga a Ulan Bator. Uno di loro, Ginger, un australiano dai capelli rossi, che guida una Micra del 1995 promette di darmi uno strappo il giorno successivo.
Il giorno dopo la macchina ha problemi, serve un saldatore che viene efficacemente trovato in città. C’è un problema, il saldatore ha i pezzi ma non la saldatrice!
Passano le ore, io e Gabriele rimaniamo in attesa di un segnale di vita che arriva solo dopo pranzo. In guesthouse arriva un signore che sta partendo per Osh con un fuoristrada e cerca passeggeri. Facciamo i bagagli al volo e partiamo. Gabriele prosegue fino a Osh, io decido di fermarmi per l’ultima tappa tagica nel villaggio di Karakul, sulle sponde dell’omonimo lago. Da lontano, l’immagine è idilliaca. Immaginate un lago di un colore blu cobalto, a 4.000m di altezza, contornato da vette di bianchi ghiacciai e prati sterminati. Il villaggio si dimostra però essere una sorta di città fantasma, con bianche casette con finestre blu, in alcuni casi diroccate. Credo ci vivano poche decine di abitanti, molti gruppi si fermano lì per la notte nei tour organizzati. Quando arrivo nella guesthouse ci sono infatti venti tedeschi arrivati a bordo di fuoristrada mastodontici. Il lago è stato originato dalla caduta di un meteorite sulla Terra e sembra veramente un luogo da fine del Mondo.
Nella sua solitudine e nella desolazione di quel villaggio, guardo l’orizzonte e penso che sia uno scenario da “fine del viaggio”. In realtà il viaggio prosegue ma, dalle coste di quel lago, saluto ufficialmente il Tajikistan, un paese che mi ha regalato emozioni e incontri incredibili. Domani si entra in Kirghizistan, ma questa è un’altra storia…