Burkina Faso – Giorno 1
Sono arrivato a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso, da poche ore. L’aereo proveniente da Istanbul ha toccato il suolo nel cuore della notte, in un buio profondissimo. Quando atterri a Milano, Londra o Parigi dopo il tramonto, le città sono un ammasso di luci impazzite che illuminano a giorno le strade. Qui invece, dall’alto vedo solo delle flebili lucine intermittenti, sparse su una superficie vastissima, immerse in un buio così nero da far paura. Si apre il portellone dell’aereo, scendo i gradini della scaletta e vengo assalito da un odore di terra bagnata, di umido che entra nelle narici. Raggiungo quindi la guesthouse che avevo prenotato dall’Italia, dormo poche ore, emozionato e agitato per questa nuova esperienza: la mia prima volta in Africa!
La giornata inizia con l’incontro con Ahmed, un ragazzo ghanese che mi soccorre mentre approccio per la prima volta le strade chiassose e terrose di Ouaga, come viene chiamata la città dalle persone del posto, piene zeppe di motorini fino all’inverosimile. Fortunatamente in Ghana si parla inglese così mi aiuta ad avere una sim card burkinabè. Poi blocca una macchina di passaggio, mi ci ficca sopra e con il mio stentatissimo francese riesco a farmi portare alla stazione Staf de l’Est, dove partono i bus per Bani, prima meta che mi ero prefissato di raggiungere. Biglietti presi, mi ributto sulle strade afose della capitale che è un agglomerato senza senso di strade, affollate di motorini, in cui fatico a districarmi e a orientarmi.
Tutti mi chiamano nassarà, in dialetto locale significa “bianco”. Incontro un ragazzo al mercato che, mi pare di aver capito, lavora con i disabili, ma non ne sono certo. Anche lui mi scarrozza in giro, promettendo di venire a trovarmi a Koubri, dove soggiornerò per circa due settimane. Capito poi per caso nel giardino del municipio e c’è una grande festa. Non è dato sapersi il motivo ma le donne sono vestite di colori sgargianti, tessuti bellissimi e copricapo abbinati. Hanno una bellezza intrinseca e uno sguardo pieno di vita.
Dopo aver girovagato un paio di ore rieccomi in stazione ed ecco Clement, un ragazzo mossi che va a Dori, sul mio stesso bus. Iniziamo a parlare, cioè lui parla e io ascolto e ribatto con quelle quattro parole francesi che conosco “demain je vais travailler a Koubri” lui ride e dice che parlo bene francese. Me ne convinco e siamo seduti a fianco sul bus. Mi compra dei dolcetti, voglio pagare ma mi stoppa. Sono l’unico nassarà sul bus, mi sento così bene nella mia diversità, mi sembra gente buona, gentile d’animo. E tutti così giovani, ho incontrato pochissimi adulti: il futuro di questo paese è in mano a loro, un futuro difficile da scrivere, un paese senza sbocchi sul mare, le cui risorse sono in mano a pochissime persone.
Stiamo passando per villaggi sperduti, il verde brillante della vegetazione fa contrasto con il rosso della terra, le case sono costruite con mattoni di terra, sembrano dei piccoli accampamenti perché ogni nucleo è cinto da un muro esterno, credo ad ogni nucleo corrisponda una famiglia. L’unico momento che altera la giornata degli abitanti è il passaggio del bus: le donne — o meglio le ragazze — cariche di vettovaglie che sorreggono sulla testa grazie a drappi arrotolati, accorrono ai finestrini per vendere cipolle, dolcetti, arachidi, mele. I ragazzi col banchetto della carne espongono i proprio prodotti armati di machete per tagliare il “boccon buono”. Ci fermiamo — ad un tratto — nel nulla della brousse. I musulmani stendono i loro tappeti e iniziano a pregare. I cristiani fanno pipì mentre attendono i fratelli in preghiera. C’est l’Afrique. Io mi godo lo spettacolo e scatto qualche foto ai baobab e il cielo azzurro con tante nuvole bianche. Stiamo cambiando zona, ci muoviamo verso il Sahel e cambiano le facce. Sul bus son saliti due uomini bellissimi col viso avvolto in un turbante. Forse sono tuareg o peul.
Scendo a Bani, il villaggio è di etnia peul e parlano una lingua che si chiama fulfulde. È un tuffo in un passato remoto, trovo l’Auberge Le Nomade, mi ero scritto qualche mail con Eva, una ragazza olandese che gestisce questo posto con il compagno burkinabe Noum, per avvisare del mio arrivo. Mi accolgono una selva di bambini, tanti tantissimi. Sono felici, direi allibiti di vedere un bianco. Mi prendono per mano e mi tirano, vogliono una foto. L’auberge si compone di una serie di capanne di terra con tetto a cono di canne. È molto spartano, ma accogliente. Non c’è luce, non c’è acqua corrente, il bagno è una latrina e ci si lava col secchio.
Bani è diventata famosa — per modo di dire — perché qualche decennio fa un uomo si è dichiarato profeta, affermando di aver raggiunto La Mecca a piedi in soli tre giorni. Hanno iniziato a venerarlo e il profeta ha convinto la gente del villaggio a costruire una grande moschea al centro del villaggio e sei piccole moschee sulla collina che lo circonda. La cosa eclatante è che il profeta eretico fece costruire tutte le sei moschee della collina non rivolte verso la Mecca bensì rivolte verso la Grande Moschea, ove lui risiedeva. Egocentrico questo profeta! A parte la storia, il luogo è carico di misticismo. Arrivo alla Grande Moschea proprio mentre il villaggio si raduna in preghiera. Osservo in silenzio.
Il sole cala, hanno spento l’interruttore. In mezz’ora è buio e girovago per il villaggio. Il bello è che mi sento protetto, sono ospite e da queste parti questa parola ha grande valore. Stanotte il cielo è immenso, bevo una birra Brakina con Noum e mi godo lo spettacolo.