Romania, Novembre 2017
C’è un luogo in Europa dove il tempo sembra essersi fermato.
Un luogo separato dal resto del paese da alte montagne, i Carpazi, che hanno permesso a queste valli di conservare per secoli tradizioni, usi, costumi e musiche.
Dove l’ultimo segno della storia sono le sue chiese di legno con guglie altissime, costruite nel Settecento per festeggiare la fine delle invasioni tatare.
Dove gli uomini e le donne vestono ancora i costumi tradizionali, e la domenica è giorno di festa e li vedi sfilare verso la chiesa con le loro gonne colorate, i gilet di pelo di pecora, gli stivaletti in pelle di capretto.
Dove fino alla fine degli anni ‘90 non esisteva l’acqua corrente e così i vestiti si lavavano al fiume con delle “lavatrici tradizionali” che sfruttavano la forza della corrente per convogliare l’acqua in grossi catini di legno.
E puoi essere così fortunato da incontrare ancora donne intente a lavare grossi tappeti di lana al fiume dentro queste vasche.
Dove la morte è vista come un passaggio della vita, i cimiteri sono vivi e pieni di fiori, molto spesso finti, perché il colore non manchi mai. Dove le tombe portano i nomi dei morti ma anche quelli dei vivi, perché vengono riservate in anticipo e quando si muore basta scolpire la data sulla lapide.
Dove le donne passano giorni a cucinare ciorbă e sarmale per tutto il paese, perché bisogna celebrare l’anniversario della morte di un’anziana.
Dove è più facile trovare qualcuno che parli italiano che inglese, perché dopo la fine del regime comunista tanti sono partiti verso il nostro paese per sfuggire alla fame.
Dove tanti sono tornati, perché, alla fine, quasi chiunque vuole vivere nel posto dove è nato.
Anche Ileana, una signora che ha vissuto per soli nove mesi a Grosseto e mi ha accolto nella sua bella pensione in un paesino in mezzo alle colline. Ha perso il marito a soli trentaquattro anni: un incidente in bicicletta vicino a Rimini.
Ha il viso paffuto, incorniciato da un foulard nero con tanti fiori colorati, le mani gonfie di chi lavora nei campi, di chi taglia la legna, le mani di mamma. Le mani di mia mamma.
Un luogo dove la vita segue il ciclo della natura, dove si coltiva la terra e si crescono le bestie che sono cibo ma anche strumento, per arare e per trasportare la paglia e la legna. Dove gli inverni sono rigidi, e la sera nei paesi si diffonde una leggera nebbiolina e quell’odore acre di legna bruciata che serve a riscaldare le case.
Dove la prima cosa che ti viene offerta quando arrivi, stanco e provato dalle salite, è un bicchierino di pălincă, una grappa fortissima che farebbe resuscitare i morti. E poi lardo e salsiccia affumicata, per fare riserva.
Dove la mattina bevi latte appena munto, tiepido delle mammelle delle vacche.
Dove le colline sono punteggiate dai covoni di paglia, che a farli ad ombrello l’acqua scivola sui fianchi e non li fa marcire.
Un luogo dove il tempo è lento e scandito, dove c’è ancora spazio per essere comunità, per ritrovarsi, per stare insieme.
Quel luogo si chiama Maramureş.
E ringrazio le mie gambe che mi hanno portato fin qui.