Togo – Giorni #2-6
Quando il sole sta tramontando, il cielo si riempie di pipistrelli. A stormi, abbandonano la montagna per andare a caccia di insetti e volano sopra la Maison. Mi piace arrampicarmi sulle pietre della collina e rimanere a naso in su a guardare lo spettacolo. Ieri Julienne, la piccolina di casa, mi ha visto abbarbicato sul masso ed è corsa verso di me gridando “chauves-souris, chauves-souris”, pipistrelli in francese, e siamo rimasti abbracciati a goderci quel momento.
È qui, a pochi chilometri da Kpalimè nella regione dei Plateaux, che Susanna è arrivata nel 2013 per un breve progetto di volontariato a soli 24 anni. Susanna sognava l’Africa nera da quando era piccola, guardava in tv le immagini di quelle terre sconosciute e sognava un giorno di toccare quel suolo. Quel breve soggiorno le ha però cambiato la vita.
Dopo tre mesi insieme ai bambini del villaggio, tornata in Italia, sentiva di dover tornare, di dover fare qualcosa di più. Non ha mezzi economici, solo tanta forza di volontà, un’immensa forza. Decide di andare in Francia e lavorare per qualche tempo, raccoglie un piccolo gruzzolo, tremila euro per tornare in Togo e comprare un pezzo di terra. Inizia a far girare in rete la sua idea: costruire un orfanotrofio e trasferirsi in Africa per aiutare i bambini. Qualche persona crede in lei, piccole donazioni che le permettono di iniziare il primo cantiere. Va a vivere nel villaggio, non vuole delegare quel lavoro così importante così segue passo a passo i lavori, chiama volontari ad aiutare, realizza migliaia di mattoni in terra e paglia con le sue mani, guida il camion per andare in città ad acquistare legno, lamiere, chiodi, pietre, piastrelle. In sei mesi il primo cantiere è finito, può aprire la sua casa, la Maison sans Frontières.
Da lì, in due anni seguono altri cantieri, sempre più persone credono in lei ed oggi la Maison è una realtà che accoglie dodici bellissimi bambini orfani che hanno alle spalle storie dure, spesso incredibili a credersi. Bambini abbandonati da uno o entrambi i genitori. Sebastien e la sorella Onorine, per esempio, arrivano da Lomé. Susanna conosceva già la loro famiglia perché vivevano nel quartiere dove lei soggiornava quando doveva andare nella capitale. Una mamma alcolista, un papà malato, vivevano tutti insieme in una stanza malconcia. Un giorno Susanna arriva in città e vede i bambini dormire per strada, per terra. Cerca la madre che le racconta che sono stati sbattuti fuori di casa. Il padre è morto improvvisamente e nel quartiere si è sparsa la voce che lei e Sebastien l’abbiano ucciso, sono accusati di stregoneria. Il padrone di casa li caccia e loro non hanno un posto dove stare. Susanna chiede alla madre di potersi occupare dei piccoli, qui in Africa spesso la maternità è vista come un peso da sostenere. Abbandonare i bambini è una pratica crudele ma frequente.
Julienne, la più piccolina, solo cinque anni, nonché la mia preferita, è stata abbandonata dalla madre che dopo essere rimasta incinta di un altro uomo, è stata minacciata di essere a sua volta abbandonata dal compagno se non avesse lasciato la piccola che non era sua figlia legittima. E così è stato. È difficile ascoltare queste storie, devi abbandonare il tuo punto di vista occidentale e guardare la realtà delle persone che qui lottano per sopravvivere. Mi guardo intorno, alla Maison regna amore, pace, serenità. I bambini sono meravigliosi, così piccoli e già così responsabili.
La mattina alle sei sono già in giro che puliscono il cortile, ti svegli e li vedi tutti indaffarati: chi rassetta, chi spazza, chi fa il bucato, chi cucina. Tutti cooperano a far sì che quel posto sia migliore per tutti. In cinque giorni di permanenza non ho mai sentito una sola volta piangere qualcuno. Certo, Susanna è una “madre” molto rigorosa, non potrebbe essere altrimenti con una banda di dodici scatenati che vanno dai 5 ai 16 anni!
Tutte le sere, ci si raduna nella stanza da letto. Susanna apre un libro e raccolta loro le favole. Io mi accoccolo e ammiro quello spettacolo, mi riempie il cuore. Vedere una ragazza così giovane, solo 27 anni, che ha creato da sola un sogno, un luogo dove i bambini sono felici, dove chiunque può sentire l’amore riempire le stanze. La guardo negli occhi, sono luminosi, profondi, sinceri. Oggi, quando l’ho salutata, l’ho stretta forte, ho sentito la commozione salirmi dallo stomaco, ma non ho pianto. L’ho solo ringraziata perché se ancora posso credere agli uomini, è grazie a persone come lei.
Vorrei proseguire, raccontare ancora un po’ di come sono stati belli questi cinque giorni, in cui i momenti con i bimbi si sono alternati alla scoperta della lussureggiante regione dei Plateaux. Ho conosciuto tante belle persone, a partire dai volontari della Maison, Ilaria, Ludovica e Alberto fino ad arrivare alle tante persone del villaggio che aiutano ora Susanna: Davy, la mamà che aiuta ad accudire i bimbi, Jalil, il giardiniere che fa l’orto e crede in un futuro biologico per l’Africa, François e Ippolit, i moto-taxisti tutto fare e tutti gli altri.
Forse è meglio lasciarvi solo qualche foto, in cui potete godere della bellezza di questi luoghi dove montagne e colline verdissime donano frutti e riempiono gli occhi. Dove i banani hanno foglie così grandi che ti ci potresti fare un abito, dove le donne e gli uomini portano vesti colorate e sono sempre pronti ad accoglierti con un sorriso, dove i bambini quando ti vedono passare ti gridano “yovo, yovo” ovvero “bianco” ridendo a crepapelle, dove prendere un taxi-brousse significa salire su una macchina scalcinata carica all’inverosimile senza sapere a che ora partirà e condividere lunghi viaggi schiacciati tra uomini, donne, bambini e animali, dove villaggi di montagna immersi nelle foreste vedono ancora gli uomini trasportare acqua e legna in testa sulle irte salite, dove la musica e le percussioni dominano sul silenzio, dove il cuore della Terra batte ancora forte. Ed è vivo. Questa è la mia Africa, questa è la terra che mi ha preso l’anima.