Togo – Giorni #8-9
Il viaggio è fatto di luoghi, è evidente. Ma un viaggio per me è fatto soprattutto di persone, individui che quei luoghi li abitano e tramite i quali è possibile conoscere la cultura che li permea. Questo viaggio mi sta regalando incontri fortuiti, all’apparenza casuali ma che ogni volta si sono rivelati nient’affatto tali.
Ieri pomeriggio sono arrivato a Kara, nel nord del Togo, dopo un viaggio della speranza di sei ore su un malandatissimo pullmino stipato di merci e di persone. Il mio posto a sedere, lato finestrino per guadagnare un po’ d’aria, era talmente scomodo che ogni tanto dovevo muovere il sedere per prendere tregua. Quando finalmente il mezzo ha raggiunto Kara, dal finestrino ho visto un ragazzo che mi faceva segno di andare da lui. Era un guidatore di zem, ormai dovreste sapere che si tratta dei moto-taxi locali. Appena sceso si precipita da me, forse perché avevo l’aria spaesata o forse semplicemente perché sono bianco. Prende il mio zaino, lo carica sulla moto e iniziamo il carosello degli hotel per cercarne uno che sia un buon compromesso tra le croste pidocchiose da 3000 cfa a notte (meno di 5€) e gli hotel per expat con camere climatizzate da 20000 cfa. Lo troviamo. Rodrigue, questo il suo nome, mi fa vedere la macchina fotografica che una ragazza francese gli ha regalato dopo averla portata in giro per i suoi luoghi (e non solo quello, scoprirò dopo…). Parliamo un po’ prima di salutarci, lui è di un villaggio fuori Kara, nel pays Kabyé. Il programma era quello di visitare proprio questa zona per cui ci accordiamo per vederci la mattina alle otto all’hotel e passare la giornata insieme.
Alle 8 arriva puntuale, lo vedo dal terrazzo dell’albergo e mi precipito, felice che abbia mantenuto la parola. Facciamo benzina alla moto e partiamo. In poco tempo arriviamo al suo villaggio, Lama, nel pays Kabyé. I Kabyé sono una delle etnie più antiche del Togo, sono chiamati i “contadini della pietra” in quanto vivono su montagne rocciose difficili da coltivare, che gli avi hanno saputo modellare in secoli e secoli di storia. Dopo un giro nel villaggio, mi porta a casa sua. In realtà come spesso avviene in Africa, la “casa” è in realtà composta da una serie di cortili dove vivono sia la famiglia intesa in senso stretto, che i vari parenti vicini e lontani. La prima persona che incontriamo è la nonna, una donna anziana che si aggira a petto nudo per il cortile.
Rodrigue ha perso il padre qualche anno fa, da quando è successo ha lasciato gli studi e da solo sei mesi ha iniziato a lavorare come zem. Funziona che il proprietario ti dà la moto “in licenza” per dodici mesi a patto di restituire 50.000 cfa al mese (una cifra considerevole). Al termine dell’anno, la moto è tua e puoi iniziare a guadagnare per te stesso. Per i primi dodici mesi, però, lavori solo per ripagare il mezzo senza poter mettere da parte nulla, o quasi.
La stanza di Rodrigue è, diciamo così, modesta. Un tugurio per essere realistici. Saluto la nonna in lingua kabye, facendomi aiutare da Rodrigue che mi insegna i rudimenti. Ci addentriamo così nella foresta lussureggiante, tra l’erba altissima ombreggiata da palme da cocco. Arriviamo in un altro cortile dove invece c’è tantissima gente, la maggior parte delle persone sono fratelli di Rodrigue, in realtà scopro essere gli zii ma per loro gli zii per parte di padre sono chiamati fratelli mentre quelli per parte di madre, zii. Sì, insomma, un casino! Mi accolgono con gioia, l’ospite è sacro e il segno distintivo dell’ospitalità kabye è rappresentato dalla birra di miglio, il tchoukh, che mi offrono appena entrato in cortile.
Viene servita calda dentro le calebasses, piccole zucche usate a mo’ di coppa. Durante la giornata ne berrò diverse, praticamente ogni volta che arriveremo a casa di qualcuno. Il procedimento per ottenere questa birra consiste nel far fermentare il miglio e farlo poi bollire in acqua, in quattro giorni il tchoukh è pronto e il quinto può essere consumato. Fortunatamente il tasso alcolico è basso, per cui mi gusto a grandi sorsate quel nettare un po’ amaro. Rimaniamo in cortile con la famiglia, sono tutti curiosissimi per la mia presenza. Su una panca siede un’anziana, la nonna degli zii mi pare di capire.
Beve anche lei grandi quantità di tchouk nonostante i 96 anni, che dimostra in tutta la sua meravigliosa presenza. Rodrigue mi mostra la tomba del padre, presso i Kabyé quando una persona muore viene interrata nel cortile di casa. Qua e là infatti spuntano sull’aia delle piramidi di cemento che segnalano la presenza di grosse camere ipogee dove le persone vengono inumate, purché maggiori di 25 anni.
Mi sento un piccolo antropologo, questi aspetti etnici di cultura tradizionale mi fanno letteralmente impazzire di curiosità così inizia il mio martellamento di domande a Rodrigue che risponde con enfasi spiegandomi tanti aspetti della cultura locale. Mi spiega che le donne Kabye diventano adulte a diciotto anni, ogni anno le maggiorenni salgono sulla montagna e in un bosco sacro di piante di iroko e baobab avviene la festa dell’akpema in cui le ragazze, completamente nude, danzano. I ragazzi possono assistervi e, se vogliono, chiedere la mano della fanciulla. In questa celebrazione, la donna non può rifiutare mentre se la richiesta avviene in altri momenti, può accettare o meno l’invito a nozze.
I ragazzi invece hanno due fasi di crescita nel passaggio alla vita adulta: a vent’anni avviene la festa di ewalà, ovvero il passaggio dalla fanciullezza alla giovinezza. In questa occasione, è rituale consumare carne di cane che fino a quell’età non è consentito mangiare. Da quel momento i Kabyé possono mangiarla. A pranzo, mi assicuro con Rodrigue che quello che ho nel piatto non sia spezzatino di chihuahua! Il secondo step ovvero il passaggio alla vita adulta avviene ai venticinque anni quando si celebra la festa chiamata condonà, in cui vengono sacrificate le capre e si banchetta con la loro carne. Tra i 20 e i 25 anni, i ragazzi possono cercare moglie. Se a quell’età il ragazzo è ancora scapolo, tocca alla famiglia cercargli la sposa.
Prima di lasciare il cortile, mi offrono, oltre all’ennesima coppa di tchoukh, del formaggio tradizionale. Sapevo che solo i Peul, pastori nomadi diffusi in tutta l’Africa occidentale, producono formaggio. E infatti il uangach, così viene chiamato, è formaggio di soia fritto. Incredibile, anche qui c’è il formaggio vegano!
Risaliamo in moto e ci dirigiamo verso Pya, famosa per essere il paese natale dello storico presidente del Togo, Eyedema Gnassingbé, rimasto in carica dal 1960, anno dell’indipendenza dalla colonizzazione francese, fino al 2005 anno della morte. Per non farsi mancare una bella dose di democrazia all’africana, l’attuale presidente è il figlio di Eyedema, Faure Gnassingbé. Dunque sono solo cinquantasei anni che il paese è governato dalla stessa famiglia: una monarchia in pratica. Mi mostra prima l’altare del vecchio presidente con un busto modello “Stalin” al centro di un grande parco, poi passiamo vicino alla villa di Gnassingbé Junior e lì ci fermiamo a fare una foto. Errore!! Dopo essere ripartiti veniamo inseguiti da un motorino con a bordo un tizio in divisa da calciatore (giuro, non ho fatto foto perché non era il momento!!) che altri non è che una delle guardie presidenziali. Tensione alle stelle, almeno per me. Rodrigue sembra calmo, ma il tizio è piuttosto severo: non bisogna avvicinarsi alla casa del presidente. Vuole chiamare il capitano, ma con un po’ di diplomazia ne usciamo sani e salvi. Per me una bella tachicardia, già mi vedevo in qualche carcere togolese a bere tchoukh dal mattino alla sera!!
Riprendiamo strada e risaliamo le verdissime e bellissime montagne dei Kabye, arriviamo a Tchourè, famosa (si fa per dire!) per i mestieri tradizionali dei propri abitanti: gli uomini fabbri e le donne fabbricanti di vasi in terracotta. Il fabbro, dopo i soliti convenevoli e la solita coppa di tchoukh, accende il forno a carbone mentre la donna agitando degli stantuffi fatti di pelle di capra tiene vivo il fuoco. Quando il fuoco è caldissimo, mette sulle braci un pezzo di ferro che, quando diventa incandescente, toglie e inizia a battere con dei massi di granito. Una scena infernale di caldo e baccano. Così fabbricano le vanghe che servono per l’agricoltura. Mi sembra di essere proiettato indietro nel tempo.
Il mastro-fabbro mi spiega che questo lavoro si tramanda di generazione in generazione, ora che sono arrivati i “turisti”, però, bisogna non fare arrabbiare gli antenati che non vogliono che i loro segreti siano svelati. Niente di più semplice, dovrò comprare una pintade (ovvero una faraona) da sacrificare sulla pietra sacra che giace a fianco della fornace. Non sapendo come procurarmi una faraona, decido di lasciargli qualche soldo per farlo per me. Questi avi sono golosi, direi. La cerimonia termina con un copioso versamento di tchoukh sulla pietra sacra, in modo che gli antenati possano dissetarsi in attesa della faraona.
Passiamo poi al vasellame, qui la questione è più semplice. Banalmente la donna di casa modella l’argilla girando intorno all’oggetto da modellare perché non esiste il tornio che gira per lei. La padrona di casa è bellissima, le scatto decine di foto totalmente rapito dalla sua pelle d’ebano. Acquisto delle sorte di nacchere forgiate dal fabbro e un vasino di terracotta e salutiamo. Esperienza veramente bizzarra ma interessantissima.
Continuiamo il nostro viaggio in sella allo zem, Rodrigue è felice e io di più. Le piste di terra rossa contrastano con il verde brillante delle montagne. Appaiono i primi baobab, da qui andando verso nord inizia la brousse ovvero la savana, dove i baobab sono padroni di casa e re incontrastati dei culti tradizionali animisti.
Ci fermiamo presso una cava d’argilla, da un buco nella montagna escono diversi bambini sporchi di terra rossa. Eh sì, questo lavoro di estrazione lo fanno loro perché sono piccoli e possono entrare facilmente nei cunicoli stretti. Facciamo qualche foto, ridono tantissimo per la mia presenza aliena. Ci fermiamo a pranzare in un maquis di un paesetto di passaggio, Rodrigue ha voglia di chiacchierare. Mi racconta che la francese si è innamorata di lui e gli ha chiesto di andare in Francia a vivere. Ma lui vuole rimanere qui tra la sua gente, i meravigliosi e fieri Kabyé.
Torniamo a Kara, mi lascia all’hotel. Ci abbracciamo fraternamente, gli lascio dei soldi che mi sembrano comunque insufficienti a ripagare quanto mi ha regalato. Quello che questo ragazzo mi ha donato è stato quanto di più prezioso potessi ricevere, la vera essenza del viaggio, non c’è denaro che lo possa ripagare. Mi passa a prendere il giorno successivo per portarmi verso nord e lasciarmi nel pays Tamberma, ultima tappa in Togo prima di entrare in Benin. È sera, dal terrazzo dell’albergo ripenso a questa giornata, mi sembra quasi irreale, sento il cuore che gronda di gioia e gratitudine, vado a letto felice. Bonne nuit!