#3 Da Ioannina alle Meteore
Giorno 4: Kalarites (giorno di riposo)
Per poter parlare di Kalarites, è necessario fare una premessa. Questo villaggio di montagna, insieme al suo gemello Syrrako, posto sull’altro versante di queste aspre montagne dello Tzoumerka, ha una caratteristica che lo rende unico: la sua popolazione non è greca ma forma parte di quel rosario di isole “etnico/linguistiche” che porta il nome del suo popolo, gli Aromuni (o Arumeni).
Gli Aromuni, chiamati anche valacchi o dagli stessi greci “vlach”, sono una popolazione che vive sparsa in diverse e remote aree dei Balcani dalla notte dei tempi. Si pensa siano popolazioni autoctone, latinizzate dai colonizzatori romani. Ma non vi è un’univoca versione dei fatti. Quel che è certo è che parlano una lingua romanza, abbastanza simile al rumeno ma con forti influenze dei dialetti dell’Italia meridionale e dell’albanese, mentre il rumeno standard ha più influenze slave.
La lingua arumena si stima essere parlata da circa trecentomila persone, non è codificata attraverso la scrittura (anche se sono stati fatti dei tentativi in questo senso) ma si tramanda oralmente all’interno dei nuclei familiari. Non sarà facile entrare in contatto con questo idioma in quanto praticamente tutte le persone che formano parte di questo gruppo, hanno una lingua “franca” principale che è quella del paese in cui vivono. Sono sparsi infatti in Albania, Macedonia del Nord, Serbia, Bulgaria, Istria, Romania e, appunto, Grecia del Nord. In particolare, nelle due aree dell’Epiro che si trovano tra le valli della catena del Pindo: lo Zagorochoria e lo Tzoumerka. L’unico Stato che riconosce l’arumeno come lingua ufficiale è la Macedonia del Nord. Se siete curiosi di sentire il suono di questa lingua, potete vedere questo breve video con alcune frasi basilari di saluto e presentazione qui.
In questa regione epirota, i vlach vivono ormai da secoli per cui non vi accorgerete immediatamente di essere entrati in questa isola linguistica in quanto fortemente grecizzati. In pubblico parlano greco, mentre la loro lingua madre viene mantenuta viva solamente tra le mura domestiche. Tuttavia, mantengono tratti culturali estremamente interessanti che si mostrano in tutta la loro eccezionalità nei momenti di festa, come per esempio durante la Panaghìa (la nostra Assunzione, 15 Agosto), giorno in cui ho avuto la fortuna di fermarmi a Kalarites. È stata una coincidenza che il giorno di riposo sia coinciso con questa festività: quel che è certo è che volevo visitare Kalarites con la dovuta calma e che avevo bisogno di spezzare il trekking in due parti in quanto fisicamente molto impegnativo.
È domenica mattina, scosto la tenda e apro la portafinestra della mia stanza per lasciare entrare la luce e l’aria fresca di montagna. Mi accoccolo sul balcone godendomi i primi raggi del mattino. Kalarites è ancora silente, butto un occhio alla taverna di Napoleon, proprio sotto il mio balcone, ed è ancora chiusa. Le sere d’estate si tira tardi, suonando e cantando musica tradizionale, bevendo tsipouro e fumando. Il risveglio è lento, oggi è giorno di festa! Mi preparo un caffè con il mio fornelletto: oggi non ho fretta, voglio solo godermi questa giornata e viverla con tutti i miei sensi aperti. La sera prima un signore del posto mi aveva detto che quella di oggi sarebbe stata una giornata speciale.
Mentre il sole piano piano conquista tutte le vie del paese, alzandosi sull’orizzonte oltre la montagna e baciando le pietre antiche dei tetti delle case, inizio a percepire del movimento. Mi sporgo dal balconcino e vedo in lontananza una famiglia ben vestita che cammina fianco a fianco in direzione della piazza, che intravedo tra le fronde degli alberi. Giungono sotto i platani e proseguono, allontanandosi in direzione est. Poco a poco, il numero di persone che compie questo tragitto aumenta, sento che è arrivato il momento di abbandonare la mia tazza fumante e di uscire per vedere dove tutte queste persone si dirigano.
Giunto in piazza, vedo due ragazze che percorrono una stradina lastricata. Le ombre lunghe del mattino creano giochi di luce bellissimi sul selciato, non riesco a non fermarmi per scattare qualche foto. Dopodiché le seguo, intravedo la sagoma del campanile: ma certo, stanno tutti andando in chiesa! La chiesa principale di Kalarites è posizionata su uno sperone in posizione defilata rispetto al centro del paese. Da questa balconata naturale, è possibile ammirare la profonda gola che il piccolo torrente Kalaritikos ha scavato nel corso del tempo. Quando arrivo sul sagrato, decine di persone animano lo spazio: qualcuno rimane sotto il portico – caratteristica architettonica delle chiese di questa zona – altri conversano amabilmente sul prato. È un vociare pieno di vita: “χρόνια πολλά!” (chronia pollà!) sono le parole che sento ripetere come un mantra. Chiedo a due ragazze cosa significhi: è un’espressione molto utilizzata in Grecia che in italiano tradurremmo con un semplice “auguri!” ma porta con sé un significato più profondo. Letteralmente significa “molti anni”, è un augurio di lunga vita, un inno alla vita terrena!
Passo un po’ di tempo sul sagrato, immagino che prima o poi tutte queste persone entreranno ma non sembrano intenzionate a muoversi di lì. Mi faccio avanti e destreggiandomi tra la folla, riesco a entrare in chiesa. La celebrazione è già iniziata, evidentemente non è possibile trovare spazio per tutti. Noto che le donne sono posizionate tutte nella navata di destra mentre gli uomini in quella di sinistra. Cerco un angolo con una buona visuale per assistere alla celebrazione: il prete entra ed esce dal nartece, il vestibolo che si trova dietro l’iconostasi, recitando preghiere. A fare da controcanto, un piccolo coro di uomini intona canti dall’angolo destro della sala. Mi lascio trasportare dal suono di quelle voci, che sembrano arrivare da lontano. Una voce profonda e cavernosa mi colpisce, stringo gli occhi per mettere a fuoco quella figura e vedo due ampi baffoni bianchi e una camicia a scacchi bianca e blu, stirata, senza una piega. Lo riconosco: è Napoleon!
Quando la celebrazione si avvia verso la conclusione, arriva il momento dell’eucarestia. Assisto da lontano, vedo le persone in fila davanti al prete che ricevono il sacramento. Si allontanano tenendo in mano un tozzo di pane che avvicinano alla bocca. Rimango stupito che l’eucarestia non venga data tramite un’ostia ma con un semplice pezzettino di pane. Le anziane col capo velato di nero si avviano verso l’uscita e così faccio io. Il contrasto tra il buio della chiesa, inondato dal fumo delle candele e dal profumo dell’incenso, con la luca abbagliante del sole che è ora alto nel cielo, mi acceca. Fuori le persone sono tantissime, il prato davanti alla chiesa è ormai saturo. Vestiti colorati di stoffe leggere e ampi cappelli ornano i corpi delle giovani che cinguettano con i ragazzi, anch’essi eleganti nel loro vestito della festa. Mi dirigo verso l’uscita ma sul lato sinistro della chiesa scorgo un nugolo di persone: mi avvicino e vedo un gruppo di musicisti intenti a chiacchierare. Non c’è occasione migliore per me, guadagno un angolino privilegiato e osservo i loro strumenti: un bouzouki, un violino, due clarini e uno di quei tamburelli tipici anche del meridione italiano con i piccoli piattini che vibrano sul bordo. Credo in Salento si chiamino tammorre.
Attendo che si scaldino: il suonatore di bouzouki inizia a far vibrare le corde del suo strumento. Lo seguono gli altri, prima i clarini, poi il violino e infine arrivano i colpi di tamburello. La gente li segue battendo le mani fin quando l’ultimo membro del gruppo che non tiene in mano alcuno strumento inizia a cantare. Il suono diventa pieno, rotondo, avvolgente. L’aria si riempie di musica e canzoni che ricordano da un lato i suoni balcanici tzigani e dall’altro profumano già di Medioriente. È una commistione magica che mi tira da una parte all’altra del Mediterraneo come un elastico, non riesco ad approdare in un solo luogo ma continuo a spostarmi dalle sponde del Libano a quelle della Grecia, dal Marocco alle montagne della penisola balcanica. Sono disorientato e rapito.
Dopo qualche decina di minuti, i musicisti iniziano a spostarsi verso l’uscita continuando a suonare. Mi metto in coda e, come me, fanno altre persone. Molti rimangono nei pressi della chiesa a chiacchierare. A ritmo di percussioni, il gruppetto di viandanti prende la prima stradina a destra in ripida salita. Come i ratti dei Musicanti di Brema, seguiamo quella musica circolare e ricorsiva che si arrampica tra le piccole vie di pietra.
Giungiamo di lì a poco nel cortile di una casa dove ad aspettarci troviamo una famiglia composta da tre uomini, di cui l’anziano sembra essere il capofamiglia, due donne e alcuni bambini e adolescenti. I musicisti si sistemano a formare un semicerchio al centro del cortile, sotto la vite che crea un’ombra accogliente. Iniziano a suonare e cantare e i componenti della famiglia accolgono l’arrivo con urla di gioia. Il capofamiglia si butta al centro dell’arco formato dai musicisti e invita altre persone a seguirlo: iniziano le danze! Osservo rapito i movimenti lenti ma precisi, le braccia che si alzano dettando il tempo, le gambe che interrompono l’andamento in senso orario per farlo riprendere nella direzione opposta. Il capofamiglia è il fulcro attorno al quale gli uomini e le donne si muovono, a gran voce ricalca le parole della canzone sottolineandone i passaggi più importanti. È un momento comunitario di grande aggregazione e di forte senso identitario, ammiro quella scena con trasporto e il suono quasi nasale dei clarini riempie l’aria. Ogni volta che una canzone termina, esplodono gli applausi dei presenti.
Riprendiamo la via, i musici escono dal cortile e li seguo ancora. Il dedalo di strade del paese è incredibilmente ramificato, la vista dagli angoli più nascosti sopra i tetti e le montagne mi emoziona e le note che continuano a uscire dagli strumenti impregnano l’aria di magia. Iniziamo un percorso che si snocciola come un rosario: ad ogni casa che raggiungiamo, le famiglie – che immagino abbiano “prenotato” l’arrivo della banda – hanno preparato libagioni. Nella maggior parte dei cortili, l’accesso è aperto e le tavole imbandite traboccano di cibo e bevande perché tutti possano servirsi.
Entriamo in un ampio cortile attraverso una porta dipinta di blu elettrico, la casa in pietra è magnifica, statuaria e imponente, altera ma accogliente. Il cortile è pieno di giovani, mi avvicinano e porgono alcuni dolci che sono come dei piccoli scrigni di cioccolato ripieni di crema fresca. Ne prendo uno, poi un altro. Le donne vestite in abiti colorati, formano un cerchio e ballano tenendosi per mano. Una ragazza dal vestito color corallo libra le sue braccia snelle nell’aria, non posso far a meno di ritrarla in una fotografia che ferma per sempre quel momento sullo schermo del mio cellulare.
Quando stiamo per uscire mi avvicina uno degli uomini che dall’inizio del percorso è rimasto incollato ai musicisti. Mi chiede da dove vengo, rispondo che sono italiano e lo sguardo gli si apre in un sorriso. Accenna qualche domanda in italiano: è aromuno, come gli altri abitanti del paese, per cui non è difficile per lui capire le mie risposte. Dico che sono arrivato il giorno prima e gli racconto del mio viaggio a piedi: non riesco a finire la frase che ho già in mano il mio primo bicchierino di tsipouro, la tipica acquavite delle regioni settentrionali della Grecia, ottenuta dalla distillazione delle vinacce, con una gradazione di circa 40-45°. Lui mi racconta essere il fratello del cantante e mi introduce al mondo segreto di quelle canzoni che il fratello sta intonando: sono canzoni tradizionali di questa regione, raccontano della bellezza delle sue montagne e della vita delle persone, dei loro dolori e della gioia. Uno dei due clarinettisti è un ragazzo molto giovane che suona con grande coinvolgimento. Ci fermiamo nei pressi di una balconata e il signore, che ormai rimane incollato a me per aiutarmi a comprendere quello che vedo, mi racconta che la canzone che hanno appena iniziato a suonare è dedicata al padre del giovane clarinettista, scomparso prematuramente l’anno precedente e anch’esso musicista.
Continuiamo la visita nelle case del paese, l’ora del pranzo si avvicina e alcune famiglie hanno allestito dei banchetti veramente luculliani. Ne approfitto, sono ormai parte integrante del gruppo, che via via che passa il tempo si assottiglia. Immagino che molti tornino verso le proprie case per preparare il pranzo. Io non riesco a staccarmi da loro, bevo grappini mandandoli giù “alla goccia” come vedo fare agli altri e osservo i balli sempre più ritmati. Donne, uomini, bambini, ragazzi: è una festa!
L’ultima tappa è quella più importante, senza rendermene conto siamo tornati verso il centro del paese passando dalla zona più alta e scendendo per i vicoli. Arriviamo dopo pochi minuti proprio da dove ero partito qualche ora prima: di fronte alla taverna di Napoleon. Qui i musicisti si arrestano, si dispongono ancora una volta a semicerchio e iniziano a suonare. C’è un grande brusio, sembra che si stia attendendo l’arrivo di qualcuno e dopo pochi minuti esce Napoleon. Il suo fisico imponente, i baffi perfetti incassati in un viso paffuto che lascia intravedere i segni del tempo. Ma con gli occhi azzurri e vispi di un ragazzino. Si ferma sul gradino più alto, in posizione dominante. Saluta e ringrazia gli astanti. In poco tempo lo circondano la moglie e altri amici, lo prendono per mano e lo invitano a danzare in cerchio. Con movimenti lenti Napoleon conquista il palcoscenico, canta e si muove insieme agli altri. È come se nell’aria si percepisse una sorta di silente rispetto per quella persona che è un po’ il simbolo di tutto il paese, un’eminenza della cultura locale e guida per tutti.
Quando i musicisti sono pronti a ripartire, decido stavolta di fermarmi. Sono provato, stanco come se avessi fatto una maratona per la quantità di energia (e di alcol) che mi ha investito. Decido di entrare nella taverna che è anche l’unica bottega del paese. È rimasta ferma al secolo precedente, con le sue boiserie di legno colorato di azzurro dove sono esposti prodotti alimentari che penso di non aver più visto in alcun negozio. La moglie dai radi capelli rosso mogano mi mostra le foto di Napoleon da giovane: è un ragazzone stupendo, le fotografie sprigionano tutta la sua personalità da leader, con il baffo sempre ordinato e scolpito. Lì dentro tutto parla di lui! La moglie si siede a uno dei tavoli della taverna, ha un vestito elegante con dei merletti, coperti da un grembiule. Le chiedo l’autorizzazione di scattarle una foto: corre in cucina a lasciare il grembiule e torna aggiustandosi i capelli. La ritraggo così, in un momento di distrazione appena prima che, mettendosi in posa, perda la magia della spontaneità.
È pomeriggio inoltrato ormai, mi ritiro in stanza per buttarmi sul letto e schiacciare un pisolino. È stata veramente un’occasione unica di condividere un pezzo di “storia popolare” in questo piccolo villaggio di montagna dove la vita scorre lenta, ancorata ai valori antichi che solo in questi luoghi lontani dal caos cittadino riescono ancora a essere preservati.
Al tramonto, ripercorro i vicoli ormai vuoti che la mattina avevamo attraversato con la combriccola festante. Passeggio lentamente, cercando di fissare nei ricordi tutti quei momenti preziosi che porterò con me per tutto il resto della vita. Sono grato di essere qui, sono grato di aver ricevuto dai miei genitori quel seme nomade che spinge noi viaggiatori a scoprire il Mondo, con gli occhi ogni volta curiosi e vergini, mai sazi di bellezza.
La sera mi concedo un piatto a base di pecora nella taverna. Mi siedo nella veranda esterna, sotto la vite. Scrivo qualche appunto quando, dalla parte opposta alla mia, vedo un gatto rosso che si dirige verso di me. Non cambia direzione e dopo qualche balzo salta sulle mie ginocchia, sembra proprio che abbia scelto me per schiacciare un pisolino! Il figlio di Napoleon, che viene nei fine settimana per aiutare alla taverna, mi porta un piatto fumante insieme a una birra ghiacciata: il gatto si chiama Napoleon, come suo figlio!