Camerun – giorni #13-14
Il programma dei prossimi due giorni prevede di partire alla scoperta del popolo Koma, etnia indigena che occupa la zona della valle del Faro chiamata Transfaro, in quanto collocata in quella piccola fetta di terra oltre il fiume Faro e prima della frontiera con la Nigeria. Sui monti Alantika, che significa “là dove Allah non è arrivato” vivono infatti i koma di montagna, ancora fortemente ancorati alla loro cultura ancestrale. Per arrivarci serve tempo e pazienza, una lunga strada di terra e fango unisce Poli a Wangaï, la capitale del popolo koma.
Mi alzo deciso a trovare una moto che mi porti laggiù ma quando arrivo al campetto, Alain e Benito sono già lì che mi aspettano e mi dicono che no, per nessuna ragione al mondo mi avrebbero lasciato andare da solo in un posto tanto lontano.
Sono felice che vogliano venire con me, in effetti la missione sembra ardua e sicuramente avere qualcuno che conosce la strada e parla la lingua locale mi agevolerà. In più questo rinsalderà la nostra amicizia.
Alain parte per il mercato per andare a cercare una moto da affittare, contratta e torna con il nostro mezzo. Essendo una zona considerata un po’ “calda” in quanto al confine con la Nigeria — anche se lontana dalla zona dove opera Boko Haram — passiamo a registrare la mia presenza e i nostri spostamenti fino a Wangaï prima al ministero della Foresta, poi alla Gendarmeria e infine alla Polizia. Mostro passaporto e visto e ottengo il loro benestare a partire.
Siamo in sella, sembriamo i tre moschettieri in versione “afro”. Anche Alain e Benito oggi sono eccitati per l’avventura, non capita loro così di frequente di lasciare Poli. In breve partiamo e ci immergiamo nella campagna della valle che attraversa un rosario di microscopici villaggi.
Dopo circa 30 km e un considerevole numero di buche e pozze d’acqua ci fermiamo prima a Fignolé a salutare le suore dell’immancabile missione locale e poi a Gode, un villaggio a maggioranza peul dove ci rifocilliamo. I peul da queste parti sono ancora più enigmatici e inquietanti, in quanto hanno i visi e le mani decorati da indecifrabili tatuaggi. Il “ristò” locale prevede riso e della carne non meglio identificata da consumarsi seduti a terra nel cortiletto della cuoca del villaggio. Entrano due peul, chiedo se posso fotografarli in quanto hanno bellissimi tatuaggi. Acconsentono.
Alain e Benito mi dicono comunque di fare attenzione ai peul in quanto molti di loro sono banditi, ritorna anche qui la loro nomea di popolo poco affidabile.
Mi rifornisco di acqua in bottiglia e ripartiamo. Passiamo il villaggio di Voko dove registro la mia presenza alla Gendarmeria, da lì in poi sono altri 40 km immersi nel Parco Nazionale di Faro, una riserva naturale dove è proibito abitare in quanto vivono animali selvatici, tra cui leoni ed elefanti. Nella stagione delle piogge è difficile avvistarli soprattutto passando sulla strada principale, ma nel lungo e difficoltoso tragitto ci attraversano la strada prima una famiglia di babbuini e poi due esili ed eleganti gazzelle. Che meraviglia!
Dopo quattro ore e 80 km di pista, siamo a Wangaï, immancabile passaggio dalla gendarmeria che accorda la visita e arriviamo dal Lamido, il capo villaggio, a presentarci.
Ci accoglie e ci lascia poi insieme ad una guida di fiducia che ci accompagnerà nei villaggi di montagna, dove pernotteremo. La guida inizia a sciorinare una serie di prezzi veramente alti rispetto alla media locale: i soldi per il Lamido, i soldi per acquistare i regali per la gente di montagna, i soldi per la sua guida e quelli per acquistare il cibo per la cena. Alain mi guarda inorridito, per lui è una cifra esorbitante! Fortunatamente per loro è tutto gratuito essendo i miei accompagnatori. Intuisco la fregatura ma ormai siamo lì per cui dopo un po’ di negoziazione, accetto e partiamo a piedi per i monti Alantika.
Dopo due ore di salita e una quantità di sudore non calcolabile, carichi di zaini e vettovaglie, arriviamo al piccolo villaggio di capanne di fango dove vivono i koma. Hanno vestiti trasandati, la nonna invece si presenta con una maglietta sgualcita e il tradizionale “gonnellino” di foglie che copre solo le parti intime.
Siamo sfiniti dopo tutto quel viaggio, la guida mi propone per ulteriori 1.000 franchi cfa (1,5€) di sgozzare un pollo per la cena. Mi scuso con gli amici vegetariani ma siamo affamati e gli occhi di Benito e Alain mi parlano. Accetto e il povero pollo viene sacrificato sull’altare della nostra fatica ma lontano dai miei occhi.
Dopo cena la guida ci mostra il nostro giaciglio ed ecco la sorpresa: una capanna di fango con, a terra, tre stuoie di rafia. Più tradizionale di così, non si può!
Mentre Alain e Benito crollano in un sonno immediato, io inizio la mia battaglia con il suolo duro e spigoloso del pavimento di terra. Inutile dire che vincerà lui e mi addormenterò dopo parecchie ore passate a rigirarmi per trovare la posizione meno ingrata.
La mattina mi alzo con le ossa rotte, le montagne sono immerse nelle nuvole e piove una pioggerella fitta e leggera.
La nonnina fuma una pipa, in pochi minuti accorrono al villaggio una decina di donne nude con il solo gonnellino di foglie sulle parti intime. Allo stesso modo sono abbigliati i bambini mentre gli uomini hanno i vestiti della sera prima. Annuso subito la messinscena per far felice il bianco. Vengono distribuiti i regali ovvero sale, sapone e fiammiferi, non tiro fuori nemmeno la macchina per fotografare mentre Alain e Benito scattano foto col mio cellulare, divertiti. Vedo una bimba che cerca di coprirsi per il freddo, dico alla guida se quello è sempre il loro modo di abbigliarsi. Mi confida che normalmente lo fanno solo nella stagione secca, ora fa freddo per cui portano i vestiti normali. Nonostante le donne siano bellissime nella loro nudità, conto i minuti perché possano congedarsi.
Finita la colazione scendiamo a Wangaï, dobbiamo tornare a Poli e la strada è lunga.
È quando stiamo per risalire in moto che succede l’imprevedibile: dalla Gendarmerie ci fanno segno di fermarci. Chiedono come al solito tutti i documenti miei e dei miei amici. Qualcosa non va. “Dov’è il tuo foglio di autorizzazione turistica? Il tuo visto ti permette di visitare il paese ma non di accedere ai siti turistici (!?!)” chiede il capo della Gendarmeria. Basito, ribatto che ho registrato la mia presenza a tutte le autorità di Poli, che ieri il suo collega mi ha lasciato passare. Mi dice che lui è il capo, che ieri era in riunione e che la situazione è molto grave. I turisti devono avere un foglio rilasciato dal ministero del Turismo. Dico che ignoro la necessità di questo foglio, che ho già visitato altre parti del paese e che da nessuna parte mi era stato richiesto. Imploro con gli occhi la guida di intervenire. Ma lui non può fare nulla, quando le autorità fanno la voce grossa, il popolo deve solo abbassare la testa. Benito viene accusato di complicità, il Capo Gendarme mi dice che sono reo di turismo clandestino. Vengo fatto accomodare in uno stanzino dove un collega di grado minore scrive su un quadernino la mia deposizione e i miei capi di imputazione.
Nonostante mi sembri tutto assurdo, mi agito e la testa comincia a pensare alle situazioni peggiori. Diventerò il nuovo caso di reclusione internazionale. “Cosa dirò a casa? Al lavoro? Tra una settimana devo partire. Aspetta, chiamo l’Ambasciata”. Ed altri pensieri vorticosi che mi vedono per sempre sbattuto in una cella camerunese.
Quando esco dallo stanzino, tremante ma fermo nelle mie posizioni, la guida mi fa un cenno e mi fa capire che tutto quello che vogliono sono i soldi. Mi fa segno di offrire 5. Ma cinque cosa?? Arriva persino il Lamido che accorre in mio soccorso, capisco che quella a cui sto assistendo è una farsa gigantesca organizzata da militari corrotti che vogliono solo impaurirmi e scroccarmi dei soldi. La guida mi dice che 5.000 franchi cfa basteranno. Ma siamo sicuri?? 7€???
Sono infuriato, non voglio alimentare quel mercato di corruzione di cui finora avevo solo sentito parlare. Ma non ho altra scelta, allungo una banconota da 5.000 franchi — corrispondenti a circa sette bottiglie di birra — al vice Capo e chiedo perdono tra i denti per il mio errore. La tensione si allenta, le mie prigioni camerunesi si allontanano e usciamo dalla Gendarmeria.
Sono su tutte le furie, urlo alla guida che non è questo il modo di trattare gli stranieri che vogliono visitare il paese, che dirò a tutti i miei amici di quanto corrotta sia la polizia camerunese. Di quanto faccia schifo. Che segnalerò la questione al Consolato della Repubblica del Camerun a Milano.
Prendiamo la strada, Alain e Benito sono costernati ma abituati a questo tipo di condotta delle autorità che invece di salvaguardare la sicurezza del paese, pensano a riempirsi le tasche.
Cercano di rianimarmi, ricominciamo a chiacchierare e ridere nella lunga strada verso Poli.
Ed ecco qui, in tre anni di viaggi africani la mia prima brutta esperienza doveva pur arrivare.
Torno dalle suore che sono uno straccio tra la notte insonne, la detenzione dei Gendarmi e gli ottanta chilometri di pista. Il letto è la mia unica consolazione.
Domani — di certo — sarà meglio!