Benin – Giorni #17-19
Ultima notte. Sapevo che sarebbe arrivato questo momento. La fine di un viaggio ha sempre un sapore agrodolce, ripensi a tutte le persone incontrate, ai momenti vissuti, ai viaggi incredibili per spostarti da un posto all’altro in questo continente così dannatamente assurdo, che a volte ti fa vivere momenti di sconforto ma poi ti ripaga sempre con momenti ancor più numerosi di gioia pura.
Viaggiare in Africa, per di più in solitaria, è sicuramente faticoso. Utilizzare i mezzi “pubblici” locali, cercare di districarsi tra la folla quando ti ritrovi sperduto nel mezzo delle capitali, capire da che parte dover andare, fidarsi di persone che vedi per la prima volta ma che spesso sono l’unica àncora di salvezza. Ecco forse è proprio questa la chiave di volta di un viaggio in solitaria e ancor di più in questo continente: sapersi fidare. Non in maniera squilibrata e casuale, certo, bisogna sempre stare all’erta qui come in qualsiasi posto del Mondo. Ma saper riporre fiducia nell’altro, farsi condurre, essere curiosi e non spaventati, lasciare che le cose fluiscano perché “ça va aller”, andrà bene, sono ingredienti fondamentali senza i quali un viaggio così non potrebbe funzionare.
Ho incontrato persone veramente speciali, ho condiviso momenti di fratellanza, come un africano con la pelle bianca, ho mangiato con le mani, ho dormito nella savana e a casa delle persone del posto, ho girato per ore in motorino con ragazzi conosciuti alla stazione dei taxi, ho bevuto birra di miglio nei mercati e a casa di un re, ho condiviso pensieri, momenti, speranze. Ho toccato con mano la cultura africana di popoli che perpetuano tradizioni antichissime. Ho visto posti bellissimi e altri bruttissimi. Ho saputo ascoltare, ho parlato francese come non pensavo di poter fare, mi sono messo in gioco ogni giorno.
È stato un viaggio totalizzante, che ora che sta per finire sento rimarrà nel cuore come uno dei più belli, sicuramente dei più intensi, dove ho veramente mangiato la terra, macinato strada, stanchezza, sudore, un viaggio che vorrei non finisse qui. Ma è ora di tornare.
In questi ultimi giorni ho percorso tutta la costa da ovest verso est:partendo da Grand-Popo, dove ho ricaricato le batterie sulle sue spiagge orlate di palme, mi sono prima diretto nella vicina Ouidah, la città tristemente famosa per la tratta degli schiavi. Questa città infatti era uno dei porti principali da cui salpavano le navi dirette al cosiddetto “nuovo Mondo”, le Americhe, che per essere colonizzato necessitava di manodopera a basso costo. Quale bacino migliore dei popolosi paesi dell’Africa Occidentale, pensarono gli europei?
E così, dopo essermi diretto alla Porta del Non Ritorno, monumento che ricorda quel lungo e infame capitolo della storia di queste terre, mi sono poi fermato nell’orfanotrofio gestito da Justine, una tenacissima signora beninese che, con l’aiuto di due amiche italiane a capo della ONG “Ensemble pour grandir”, manda avanti questo rifugio dove tantissimi bambini e ragazzi senza famiglia cercano di dimenticare un passato di sofferenza.
Da Ouidah, cittadina ricchissima di architetture coloniali decadenti e affascinanti, mi sposto in un’oretta verso Cotonou, la città più importante del paese, vero centro economico a discapito della capitale Porto Novo situata a poca distanza. Cotonou è una megalopoli, peggio di un girone dell’inferno. La quantità di motorini che sbuffano fumo nero è esorbitante e ci si trova costantemente imbottigliati nel traffico. Cerco di districarmi nella folla facendomi portare alla stazione dei bus che si trova proprio a ridosso del mercato. Ho bisogno di lasciare questo caos nel più breve tempo possibile! A fatica trovo un mezzo che parte per Porto Novo ma sul minibus succede l’imprevedibile: conosco un giovane che sta andando all’università nella capitale. Appena arrivati, non mi dà il tempo di cercare un alloggio e mi dice di andare con lui, mi avrebbe poi presentato il fratello che parla italiano in quanto ha vissuto alcuni anni a Torino. Me lo presenta al telefono e, in effetti, dopo meno di due ore si presenta da noi e decide per me: “A Porto Novo non c’è nulla da fare! Torna con me a Cotonou, sei ospite e ci andiamo a divertire!!”. Non riesco a oppormi, in meno di un’ora a bordo di un’auto fiammante, mi ritrovo di nuovo nel caos di Cotonou dal quale avevo tentato di fuggire. Mi porta nella sua casa dove ci sono una serie di personaggi improbabili e vuole a tutti i costi che la sera esca con lui in modo che mi faccia conoscere qualche bella ragazza disponibile, dice queste testuali parole. Non so come uscirne, fingo di stare male e, in effetti dopo una giornata così, ho un mal di testa infernale. Sconsolato, esce senza di me e la mattina lo ritrovo che dorme pancia all’aria in sala.
Non ho altra soluzione se non quella di scappare. Mi infilo nel retro tramite la porta della cucina, scavalco il cancello e sgattaiolo via facendomi portare da uno zem nell’unico ostello della città, la Guesthouse Haie Vive, un posto incantevole con un giardino lussureggiante nell’omonimo quartiere “ricco” delle ambasciate e degli expat. Arrivato alla fine del viaggio e dopo questa esperienza, non posso farne a meno!
Qui conosco Isabel, una spagnola in viaggio in moto col fidanzato momentaneamente in Nigeria e Stefy, una cooperante ecuadoriana con cui passo dei bei momenti.
Il mio ultimo giorno è dedicato alla visita di Ganvié, la cosiddetta Venezia africana, un villaggio sospeso sull’acqua della laguna inquinatissima di Nokuè. Ci si arriva, recandosi al porto di Abomey-Calavi e prendendo parte a uno dei numerosissimi tour organizzati che portano i turisti su piroghe alla scoperta di questa cittadina, i cui edifici sono tutti costruiti su palafitte.
Prima di salutare il Benin, mi reco per il consueto acquisto di una maschera tradizionale al Centre Artisanal di Cotonou, poco distante dall’ostello, dove trovo una bellissima maschera dell’etnia yoruba, popolo sparso tra Benin e Nigeria, che purtroppo non ho potuto andare a conoscere per mancanza di tempo.
Ultima corsa in zem, non riesco nemmeno a quantificare il numero di motorini cavalcati in queste tre settimane, questa volta verso l’aeroporto.
Termino con le parole che usavo l’anno scorso prima della mia ripartenza dal Burkina Faso. Spero che questi diari vi abbiano invogliato a scoprire questo continente, se anche solo uno di voi deciderà di viaggiare per queste latitudini invogliato dalle mie parole o foto, sarà per me grande orgoglio. L’Africa ha bisogno di tutto l’amore di questo mondo, e noi abbiamo bisogno di riagganciarci a questo mondo, riportare i piedi per terra e riscoprire i veri valori della vita. E l’Africa ti permette tutto questo. Tornerò, è certo!