Camerun – giorno #15
Arriva un momento in cui smetti di fotografare, arriva un momento in cui dovresti ripartire ma non ci riesci, arriva un momento in cui hai solo voglia di restare perché hai trovato un luogo in cui ti senti a casa, in cui ti senti ben voluto, a tuo agio, protetto. Dopo tanti giorni di peregrinazioni e continui cambiamenti, voglio rimanere a Poli, con i miei nuovi amici, questa meravigliosa comunità che risponde al nome di dowayo.
Sarei dovuto ripartire dopo l’avventura — o meglio disavventura — a Wangaï, ma quando arriviamo in città e ci concediamo una meritata birra gelata, Alain e Benito mi comunicano che da lì a due giorni ci sarebbe stata una grande festa in un villaggio vicino. La festa più importante dell’anno, l’ingresso nell’età adulta dei giovani uomini dowayo ovvero la festa della circoncisione.
Decido di rimanere.
La mattina mi sveglio finalmente in un letto comodo e piove a dirotto. Faccio colazione con le suore che ormai fanno un po’ parte della famiglia e per il quale sono diventato una presenza tra il rassicurante e il divertente, per questa mia insana pazzia di provare tutto quello che è locale, di non negarmi niente e di gettarmi a capofitto in avventure che neanche loro si sognerebbero di intraprendere.
Al gruppo si è aggiunta anche Marie-Françoise una suora francese in servizio a Garoua che è venuta a passare qualche giorno con le consorelle. Finalmente posso sperimentare il mio francese anche con una madrelingua, che a dire il vero a volte fatico a capire per la velocità con cui parla.
Approfitto della mattinata grigia per lavare i vestiti che sono ormai fetidi e puzzolenti, così come lo zaino inzaccherato di fango. Mentre frego con foga magliette e pantaloni, arrivano Alain e Benito che pazienti mi aspettano nella veranda della missione. Abbiamo un appuntamento importante.
Dal momento che il giorno precedente, Alain ha distrutto l’unico documento che gli permetteva di viaggiare ovvero il libretto scolastico, dimenticandoselo in tasca durante un forte temporale, gli propongo di aiutarlo a fare la carta d’identità.
Anche se ha già compiuto diciotto anni, non l’ha ancora richiesta perché il costo (8.000 cfa — circa 12€) è per lui proibitivo. Il padre di Alain era gendarme ed è morto da qualche anno, la madre non ha un lavoro e il mio amico si arrabatta come può lavorando nei campi e cercando di continuare a studiare. “Senza un diploma in questo paese non vali nulla!” mi dice “Devo riuscire a finire la scuola e poi voglio iscrivermi all’università”.
La retta scolastica è di 17.500 cfa all’anno (circa 27€). Decido che prima di partire lo aiuterò.
Benito ha invece lasciato la scuola dopo aver terminato la primaria per i soliti motivi economici e anche lui lavora quando può e quando qualcuno lo chiama.
Partiamo per andare a fare i documenti. Quella che da noi sarebbe una semplice pratica di pochi minuti, si rivela invece una vera e propria esperienza di afro-burocrazia.
Passiamo infatti da almeno quattro uffici, posti ovviamente in quattro punti diversi della città: l’ufficio giudiziario dove farsi consegnare il modulo di richiesta, l’ufficio finanziario dove farsi apporre i timbri sui suddetti moduli, l’ufficio anagrafico dove farsi legittimare l’atto di nascita, il Comune dove si pagano le marche da bollo.
Dopo due ore e un passaggio obbligato dal barbiere per essere pronti alla foto ufficiale, abbiamo finito di raccogliere tutta la documentazione e ci dirigiamo verso il Commissariato dove finalmente richiederemo la Carta d’identità. Una volta lì, l’impiegato dice ad Alain che senza il libretto scolastico, dovrà apporre nella categoria “impiego” una categoria a scelta tra “agricolteur” o “sans emploi” invece di “élève” ovvero studente.
Ripartiamo quindi per la casa di Alain dove riusciamo a trovare i bollettini di pagamento delle tasse scolastiche e torniamo al Commissariato dove finalmente gli fanno la foto e prendono le impronte digitali. Usciamo trionfanti con il tanto agognato documento. Alain è felicissimo, non smette di ringraziarmi. Mi basta vedere i suoi occhi pieni di vita, il suo sorriso bianchissimo, quello sguardo un po’ timido e pieno di gratitudine, per essere altrettanto felice.
Ci fermiamo a mangiare qualcosa, a dire il vero i ragazzi mi confessano che quel giorno non hanno ancora toccato cibo. “Mangiamo una volta al giorno” mi dicono.
Molte persone qui iniziano la giornata bevendo la birra di miglio, che — a detta loro — gli dà la forza per arrivare fino a sera e lavorare nei campi.
Così anche i “miei ragazzi”.
Ci concediamo tre piatti di “soya” che non è la famosa pianta come anche io pensavo, ma la carne grigliata accompagnata da paprika in polvere che si compra lungo le strade. Chiedo che la mia venga ben arrostita e incrocio le dita perché la maledizione di Montezuma non venga a farmi visita. Finora il mio stomaco ha retto bene.
Torniamo verso casa di Alain, riprende a piovere. I ragazzi improvvisano una lezione di lingua dowayo. “Devi essere pronto per domani” mi dicono “dovrai quanto meno riuscire a salutare gli anziani del villaggio che non conoscono il francese”. Così mi immergo in quella lingua misteriosa, i ragazzi ridono e si divertono e io mi impegno al massimo per pronunciare i suoni nella maniera più fedele possibile all’originale. Alla fine della lezione, riesco agevolmente a districarmi nei convenevoli saluti che qui in Africa occupano uno spazio importante, anzi fondamentale, all’interno di una discussione.
Domani è il grande giorno.