Tajikistan – Giorno #1
“Are you tajik?”
È questo che mi sono sentito chiedere appena messo piede nella moschea di Yakub a Dushanbe, la capitale del Tajikistan. È un giovane insegnante di inglese col quale inizio a chiacchierare, che durante la sua pausa dalle lezioni è venuto a pregare e riposarsi. La temperatura e l’umidità in città sono asfissianti, e in moschea c’è l’aria condizionata per cui la maggior parte delle persone presenti invece di pregare, sta solo schiacciando un pisolino, distesa sui morbidi tappeti della sala principale. Attorno al cortile, una serie di stanze, la madrasa ovvero la scuola coranica dove i giovani vengono educati alla dottrina islamica.
In realtà il presidente Emomali Rahmon, padre padrone del paese, teme la radicalizzazione della religione musulmana e negli anni dopo l’indipendenza a seguito della caduta dell’Unione Sovietica, ha cercato in tutti i modi di tenere sotto controllo e di dare riferimenti laici al paese. In città è tutto un pullulare di sue gigantografie, statue di eroi nazionali di personaggi che affondano la loro storia nella notte dei tempi come il poeta Rudaki o il condottiero Ismael Somoni la cui statua celebrativa svetta imponente e alquanto ingombrante in una delle piazze della capitale. Eroi che nulla hanno a che fare con la cultura profonda del paese. Personaggi volti a creare un’identità nazionale in una giovane nazione che un’identità nazionale ancora non ha.
Ma torniamo alla mia faccia, per cercare di spiegare dove sono e perché sono arrivato fin qui. Tagico, dicevamo. Forse troppo. Ho la pelle olivastra, gli occhi color nocciola, il sangue del Mediterraneo che scorre nelle vene. Quel Mediterraneo da cui sono partiti condottieri verso Oriente. Il Mediterraneo di Alessandro Magno che era arrivato fino al fiume Oxus, l’odierno Amu Darya che scorre proprio qui nell’odierno Tajikistan al confine con Afghanistan e Uzbekistan. Ed è questo il fil rouge che sono venuto a cercare: il Mediterraneo che tocca terra e diventa Mesopotamia e poi Persia.
La pelle che si fa più scura, che attraversa terre riarse dal sole ma mantiene quei tratti comuni, facce e occhi che ho visto nei Balcani, in Turchia, e poi qui nell’estrema propaggine orientale delle terre persiane, pochi chilometri prima che prendano sopravvento i lineamenti altaico-mongolici di uzbeki e kirghisi.
Ed è stupefacente aggirarsi per Dushanbe e riconoscere gli uzbeki come se fossero cinesi a Milano. Uzbeki che abitano terre distanti poche decine di chilometri, eppure così diversi. Mentre io, che ho le mie radici a più di cinquemila chilometri da qui vengo scambiato — magari con un po’ di fantasia, certo — per un locale.
Ma continuo la mia esplorazione per la capitale, in realtà chiamarla in questo modo è assolutamente esagerato. Una piccola città di provincia, sede di un mercato settimanale da cui prende il nome — Dushanbe in tajiko significa infatti “lunedì” — che nel Novecento venne scelta per essere la capitale della Repubblica Socialista Sovietica (RSS) del Tajikistan. La capitale periferica di un immenso impero, che per decenni ha provato a tenere insieme terre e popoli di culture totalmente estranee al corpo centrale. E così quel paesone di campagna, stretto in una piana circondata da immense montagne, è diventato capitale. E se ti allontani di qualche metro dal viale principale, intasato di architetture eclettiche e fuori scala volute dal già citato presidente Rahmon, ti ritrovi ancora nella vecchia Dushanbe, fatta di piccole case a un piano, quartieri che si attorcigliano attorno alla propria moschea dove si aprono patii coperti da viti rigogliose e piene di frutti che sembrano cascare da quanto gli acini sono abbondanti e paffuti.
Quartieri dove i bambini giocano in strada e ti fermano per chiacchierare — in tajiko o russo, che è la lingua franca di tutti questi paesi ex-sovietici — e ti offrono grappoli d’uva, incuriositi dalla tua presenza. Girovago senza meta, mi piace questa atmosfera di provincia, così rilassata. La gente sembra vivere bene in questa città, le donne in parte a capo scoperto e in parte con veli colorati annodati attorno al capo in una maniera bellissima che lascia scoperta parte dei capelli. Gli uomini, soprattutto gli anziani, con la loro brava tjubeteika sulla testa, il copricapo tradizionale tajiko.
Svolto ancora, mi lascio trascinare dalla casualità e trovo una chaikana, la sala da tè dove gli uomini si ritrovano a chiacchierare e a praticare il loro sport preferito: bere tè.
Non è antica, non potrebbe esserlo visto che la città ha poche decadi di storia, ma è costruita nello stile tradizionale persiano con soffitti di legno decorati e coloratissimi. Ne approfitto per sgranocchiare qualcosa visto che a fianco della chaikana c’è un forno dove le donne stanno sfornando sambusa, un saccottino ripieno di carne e cipolle delizioso e un po’ pestilenziale!
Prendo un bus per rientrare verso l’ostello, la via principale che costeggia il quartiere, è cinta da barriere metalliche coperte da striscioni celebrativi del presidente: il presidente che saluta il popolo in un campo di papaveri, il presidente che — elmetto in testa — dirige i lavori delle nuove infrastrutture, il presidente che osserva con aria fiera i nuovi palazzoni della città. È un tripudio, un incredibile culto della personalità magistralmente organizzato.
Dietro quelle barriere, le casette sventrate per far posto a una promenade di alti edifici senza anima, tutti uguali.
Torno in ostello, sono incredibilmente l’unico viaggiatore zaino in spalla. Sono tutti ciclisti pazzi che hanno alle spalle migliaia di chilometri, qualcuno — come il francese che dorme a fianco a me — è partito dalla Cina per arrivare a Istanbul e ha appena finito di pedalare nel Pamir. Altri — come Davide e Samuele — stanno pedalando da Roma a Pechino in tandem: Davide è cieco e Samuele lo guida stando davanti (QUI la loro pagina).
Sorrido perché a volte quando racconto dei miei viaggi vengo considerato come l’alieno — perché chi andrebbe mai in Camerun o Tajikistan? Ma poi viaggi e incontri persone con storie ed esperienze sovrumane.
E in quel momento ti senti di nuovo normale: un anonimo backpacker sulle strade del mondo.