Tajikistan – Giorni #7-8
Non so dire se durante questo viaggio mi abbiano conquistato più i panorami incredibili di queste terre o l’apertura e l’estrema voglia di condivisione della sua gente. Dopo questi ultimi due giorni propendo per la seconda. Quando parto, a volte ho il timore di non riuscire a entrare in connessione con le persone, soprattutto in un paese dove la maggioranza di queste non parla una lingua a me conosciuta. Sicuramente il potenziale di poter parlare con la gente fa la differenza, ma a volte la semplice curiosità di conoscere l’altro può riempire questo gap.
Quando mi sveglio nella veranda di Qoimdod il sole è già sorto e tutta la famiglia è indaffarata. Ci preparano la colazione e provo la bevanda tipica pamiri con cui tutti iniziano la giornata. Shirçai, si chiama, da shir che vuol dire latte e çai, tè. “Ah – penso – la bevevo anche io da piccolo!” È buono, ma strano. Qoimdod mi svela il segreto: il latte prima di essere mescolato al tè viene salato. Dopo alcune indecisioni, decido che mi piace e me ne scolo una bella tazza, accompagnata dalla marmellata di lamponi di cui sono ormai innamorato.
Partiamo, saluto la nonna e tutta la famiglia e ringrazio per avermi accolto come un ospite prezioso. Qoimdod deve trovare un passaggio per andare al suo villaggio, mentre io sposto i miei bagagli in un hotel molto carino del centro. Facciamo una passeggiata, Khorog è una città molto vivace e mi piace l’atmosfera che si respira. Dopo un’oretta ci salutiamo perché Qoimdod ha trovato l’auto per andare nella valle di Bartang. Io decido di passare mezza giornata di relax alle sorgenti termali di Garam Chashma a un’ora di distanza dalla città.
Sulla marshrutka non sono l’unico turista, con me due ragazzi francesi e un ragazzo di origine afghana nato e cresciuto in Olanda. Chiacchieriamo e mi racconta che entrerà in Afghanistan, nella regione del Badakhshan proprio di fronte a dove siamo ora. È sicuro lì, ci sono montagne e strade impraticabili che tengono questa regione molto lontana dalle minacce talebane della capitale Kabul e dei dintorni. Vuole andare a riscoprire le sue radici. È fortunato perché parla il dari, la lingua maggioritaria afghana che è del tutto simile al tajiko, per cui può interagire con le persone in modo immediato. Mi dice, però, che il tajiko è più poetico. Utilizzano la lingua con sfumature che la sua lingua non ha. Per esempio, mi dice, in dari ci si saluta con un semplice “arrivederci”, mentre in tajiko il commiato suona come “che il cammino possa esserti ampio” — may your path be wide. Trovo questa espressione meravigliosa e ben rappresenta l’altruismo che questo popolo ha finora dimostrato nei miei confronti.
Passiamo qualche ora alle terme, coprendoci di fanghi solforosi puzzolenti immersi in acque bollenti. I ragazzi proseguono verso sud mentre io torno in città.
Oggi ho bisogno di relax e nel cuore di Khorog c’è uno stupendo parco con una piscina pubblica alimentata con le acque del fiume. Passo qualche ora tra una bracciata e un po’ di sole, poi vedo che il parco inizia ad animarsi. Questa sera inizia un festival con musiche e danze tradizionali, non potrei essere più fortunato! Passo una bella serata, ascoltando musica e chiacchierando con un ragazzo, insegnante di inglese, che mi travolge con il suo entusiasmo. Vorrebbe che dopo il festival andassi con lui e i suoi amici in casa di un ragazzo del posto ma, questa volta, devo declinare perché la sveglia suona prima dell’alba. Il giorno dopo devo arrivare di buon’ora a Ishkashim per un appuntamento che mi ero segnato in calendario come irrinunciabile. Una di quelle tappe del viaggio fisse, attorno alle quali tutto il resto è in continuo divenire e cambiamento.
Mi avevano detto che la prima marshrutka sarebbe partita alle sei in punto, così arrivo con qualche minuto di anticipo al piazzale dove partono i mezzi e lo trovo deserto. Non un’auto, non una persona. Scoraggiato, girovago per il quartiere e un signore mi dice che prima delle otto non sarebbe partito nulla. Chiedo informazioni anche sul mio obiettivo di giornata e mi rassicura dicendo che avrei avuto tutto il tempo, anche partendo più tardi. Girovago per la città, in angoli e giardini nascosti pieni di alberi di albicocche carichi di piccoli frutti dolcissimi grossi poco più di ciliegie, scovo alcune case in legno molto particolari di vecchie architetture sovietiche.
Quando arrivo al bazar, finalmente si è animato e amo osservare come la gente vive e passa il tempo. È una delle cose che preferisco fare. Vedo una babushka che sta servendo la colazione su un tavolo sgangherato, aprendo thermos portati sicuramente da casa e versando tè e altre strane bevande a una decina di ragazzi affamati. Mi avvicino, prendo posto su una sedia traballante. Dico “Prendo quello che sta mangiando lui”. Una sbobba bianca su cui galleggia del burro. Loro ridono, “kash” — mi dicono — e vada per il kash! In realtà è una deliziosa semola bianca dolce condita con burro in cui intingere il pane. Molto nutriente, mi piace un sacco! Pago 6 somoni, circa cinquanta centesimi di euro. Torno al piazzale e siamo pronti a partire.
Il mezzo non sembra in ottime condizioni e dopo mezz’ora ci lascia a piedi, grippando il motore. Sono fortunato perché c’è con noi una ragazza locale che parla perfettamente inglese, ha studiato in Kazakhstan e negli Stati Uniti. Lavora per la Aga Khan Foundation e mi racconta degli innumerevoli progetti che questa ONG porta avanti, soprattutto in Afghanistan. Costruiscono scuole e ospedali, e danno assistenza alla fragile popolazione locale che vive in una zona isolata, in un paese totalmente fuori controllo dal punto di vista sociale e politico. Dice che i progetti sono indirizzati sia alla popolazione ismaelita ma anche a quella sunnita, senza distinzione di credo. Inizio a stimare questo ricchissimo Aga Khan.
Mi chiede perché sono venuto in Tajikistan. Ci penso. Le rispondo che sono alla ricerca di persone oltre che di luoghi. Della loro cultura e delle loro tradizioni. Dico che, informandomi, avevo avuto la sensazione che qui ci fosse quello che stavo cercando. Sorride. Credo la risposta l’abbia convinta delle mie intenzioni. Mi dice che per capire veramente la cultura locale dovrei assistere ad un matrimonio. Per loro questo momento è il più importante della vita sociale. Le famiglie mettono da parte soldi per tutta la loro vita per poter sposare i figli e le feste sono incredibili. Alcuni si indebitano pur di poter offrire a interi villaggi feste degne di questo nome.
Arriva un altro mezzo e siamo di nuovo in strada. I panorami sono da mozzare il fiato, il fiume scorre veloce sul confine e i paesaggi prima aridi diventano in questa parte della valle più verdi. Vedo la vita sul lato afghano, sogno quello che sta per succedere. E succede!
A Iskhashim c’è uno dei pochi ponti che uniscono i due paesi. A metà del ponte, una piccola isoletta. È qui che ogni sabato afghani e tajiki si ritrovano per uno dei più importanti mercati della zona. Ognuno porta la sua mercanzia e ci si ritrova. Ci si conosce e si fanno affari.
Gli stranieri devono lasciare il proprio passaporto alle guardie tajike e possono entrare. Arrivo al ponte, è uno scenario da fine del mondo immerso in un paesaggio surreale circondato da montagne, dove il fiume diventa largo e i panorami sono sterminati. Lascio il passaporto e vado verso il mercato.
In un attimo mi ritrovo circondato da centinaia di afghani. È un cortocircuito mentale quello che si attiva nel mio cervello. Tutte quelle persone con quei visi bruciati dal sole, nei loro abiti e copricapo tradizionali, che alla tv sono sempre associati ai terroristi. I talebani senza scrupoli. E io sono lì, in mezzo a loro, mi guardano, si portano una mano sul cuore e mi salutano. “Salam alaykum”.
Per un attimo mi commuovo, tutta quella umanità, tutte quelle menzogne che siamo costretti a digerire per colpa dei nostri media. Sono bellissimi, facce anziane scavate da profondi solchi duri come le pietre. Giovani bellissimi, nei loro lunghi abiti. Alcuni hanno occhi verdi, altri profondi occhi scuri. Non riesco nemmeno a guardare cosa vendono, sono totalmente rapito dall’osservarli. Un’ora per scavalcare quel muro odioso. Un’ora per stare insieme. Mi siedo a un tavolo con due giovani: Azhar parla anche un po’ di inglese e vuole a tutti i costi che vada al suo villaggio. Non ho il visto per entrare in Afghanistan, ci scambiamo il contatto e prometto che arriverà anche quel momento.
Scatto qualche foto, il mercato si sta per concludere e io mi rannicchio in un angolo a osservare come preparano i loro carri. Ripartono, verso destra la frontiera afghana: una baracca con tre bandiere. Loro a destra, io a sinistra. Ancora stento a credere di averlo veramente vissuto.
Arrivo nel villaggio di Iskhashim, mi sistemo in una guesthouse. Penso che la giornata possa dirsi egregiamente portata a termine. Mi sbaglio: un’altra sorpresa mi sta attendendo e io ancora non lo so. Passeggio per il paese, è tutto chiuso, poca gente in giro. Torno alla guesthouse e faccio amicizia con un ragazzo spagnolo che sta girando in moto. Torno in paese per comprare dell’acqua. A un certo punto, davanti all’unico ristorante della zona, vedo un capannello di donne eleganti in abiti luccicanti. Mi avvicino, capisco che si tratta di un matrimonio. Aspettano di entrare. Mi apposto, occasione succulenta almeno di osservare da fuori — penso — ricordando le parole della ragazza di questa mattina.
Ci sono due ragazzi, stanno dall’altro lato della strada e fanno cenno di avvicinarmi. Bakhtiyor lavora a Dushanbe per l’ufficio del turismo ma è originario di questa città.
Chiacchieriamo, stanno aspettando delle amiche per entrare al matrimonio. Sono compagni di scuola dello sposo. Arrivano le amiche, in eleganti vesti colorate. Gli uomini invece hanno jeans e camicia. Io sono in pantaloni e maglietta da trekking. Quando ci sono tutti, Bakh mi dice: “Vieni anche tu, dico che sei un compagno di scuola”. “Io??? Ma non ci crederanno mai”. Risponde:” Fa niente, vieni! Sei mio ospite”. Ed è così che mi ritrovo invitato a una festa di nozze di due persone che nemmeno conosco! Mi sembra tutto assurdo, orchestrato perfettamente da un fato che mi vuole bene! Entro e ci saranno almeno 200 o 300 persone, tavolate di cibo e volti che mi salutano con lo sguardo. Nessuno sembra stranito. Io lo sono, eccome!! Il tavolo dei compagni di scuola è a fianco al baldacchino degli sposi, ho una visuale perfetta. Arrivano, in abiti tradizionali, sono stupendi. Lei ha uno sguardo timido, lineamenti delicati, avvolti da un velo rosso e dorato.
Si scatena poi l’imprevedibile, i matrimoni tagichi sono veramente folli. Si mangia e si balla, contemporaneamente. Sulle note indiavolate della loro musica tradizionale, a turno i commensali si mettono a ballare davanti al tavolo nuziale. Tocca a noi. Penso “Me ne starò seduto a guardare”. Bakh mi tira per la maglietta. “Vieni!!!”. E così, in un imbarazzo che non provavo da quando facevo la pipì nel letto, mi ritrovo nella bolgia a roteare le mie manine nell’aria cercando di imitare i movimenti delle tipiche danze pamiri. Mi lascio andare, rido di me stesso ma sono felice. Felicissimo!
Ad un certo punto il tavolo dei compagni di classe di cui faccio parte si alza. “Vieni, ti portiamo da un’altra parte” — mi dice il solito Bakh. Penso — “Ma come, andiamo via dal matrimonio così?”. Saliamo sulla jeep di uno dei ragazzi e finiamo in una sorta di “after party” in una casa privata dove la sala principale — tradizionale pamiri in legno con il suo meraviglioso lucernario a cornici concentriche — è strapiena di gente che balla mentre un gruppo capitanato da una sorta di Memo Remigi tagico sta suonando e cantando. Il Memo tagico ha un pantalone a zampa d’elefante degno dei migliori anni ’80. Avrà più di sessant’anni e dopo un po’ si butta in pista con noi, scatenando l’entusiasmo della folla. Sono travolto dall’entusiasmo. Ubriaco senza aver toccato una goccia d’alcol.
Quando torniamo al matrimonio, sta quasi per concludersi. Ultimo ballo e poi gli sposi escono dalla sala e vengono scortati dalla folla fino alla casa nuziale dove consumeranno la loro prima notte da marito e moglie.
Li vedo allontanarsi, Bakh mi sorride. Mi guardo, puzzo di mercato afgano e di indiavolate danze tagiche. Sono vestito come un pezzente. Ma sono la persona più felice del mondo!