Burkina Faso – Giorni 14–17
Sono sul bus per Ouaga, l’ultimo bus prima di lasciare il Burkina. Ho appena salutato i miei compagni di viaggio di questi ultimi quattro giorni. Sono stati giorni zingari, come quelli che piacciono a me, dove gli eventi decidono da soli la propria traiettoria e tu devi solo buttartici a capofitto senza troppe domande. La prima tappa è stata Bobo Dioulasso, per gli amici semplicemente Bobo ovvero la seconda città del Burkina e capitale culturale. È una città vivissima, arriviamo in piena notte e Michael e Idriss, bobolesi doc, mi portano in centro che pullula di giovani che ballano musica assordante nei maquis della città. Ragazze dal seno prosperoso e ragazzi dal fisico perfetto si fronteggiano sulla pista. Io distrutto dal viaggio mi accascio su una sedia bevendo una Brakina, la birra locale.
Sono ospite di Michael, che vive in una grande e umile corte insieme alla famiglia allargata. La mattina incontro decine di persone, rinuncio a capire le parentele. Per me occasione ghiottissima per assaporare da vicino la vita di una famiglia burkinabé. La mamma di Michael mi accoglie con tè e pane per colazione, i fratelli mi attorniano curiosi. Uno di loro parla qualche parola di inglese, tira fuori un planisfero e gli mostro l’Italia. Ama la geografia, come me. È un ragazzino molto intelligente, si vede dal suo sguardo!
Michael dorme ancora, con Idriss andiamo al mercato perché deve trovare delle stoffe per i vestiti del suo prossimo spettacolo. Il mercato dei tessuti è meraviglioso: Wax, Dam Dam, centinaia di rotoli di tessuti tradizionali coloratissimi vengono venduti al metro per essere poi cuciti su misura. Volendo anche sul posto dalle abili mani dei sarti del mercato.
Torno a casa, Mich si è svegliato ma intanto inizia a diluviare. Passiamo qualche ora sotto la veranda a bere tè verde con vari componenti della famiglia. La preparazione del tè è un rito, serve almeno mezz’ora prima che sia pronto: si spacca il carbone e si accende il fornelletto, poi si mette il tè nella teiera e si fa bollire per poi iniziare un gioco di teiere in cui il tè viene travasato da una all’altra aggiungendo zucchero fino a quando diventa verde scuro e torbido e sopra gli si forma una schiuma spumosa. Il sapore è fortissimo, e dolce, tanto dolce. Ai burkinabé piace lo zucchero — tanto — e il sale — a palate!
Spiove, Mich tira fuori il motorino e ci mettiamo in marcia sulle strade terrose di Bobo fermandoci in ogni cantone a salutare i suoi mille amici.
Mi porta a vedere la Grande Moschea, una bizzarra costruzione bianca in stile sudanese, infilzata su ogni lato da pali di legno serviti per la costruzione. C’è un gruppo formato da due ragazze bianche e un ragazzo di colore. Facciamo il giro della moschea insieme e poi ci spostiamo alla città vecchia. Sya, primo insediamento di Bobo, è un crogiolo di vicoletti tra case di terra dove ancora la gente vive. Ci spiega una guida che la città vecchia è divisa in quattro zone: quella animista, dove vediamo feticci coperti di piume e dove vengono sepolte le placente dei nuovi nati, quella musulmana, dove le donne preparano il dolo, una bevanda fermentata simile alla birra ma fatta col miglio, la zona dei griot, musicisti per antonomasia, e infine la zona dei forgerons, artigiani del bronzo e del ferro. Non posso astenermi dal comprare qualche pezzo di artigianato in una delle botteghe, quella dei mangiatori di arachidi, come vengono chiamati nella plesanterie questa etnia.
Il centro del villaggio pullula di venditori di cibo da strada. Mich mi convince ad assaggiare quelli che da vicino si rivelano dei mega bacherozzi. Mi spiega che sono larve che vivono nei trochi degli alberi di baobab e sono una specialità che si trova solo a Bobo. Non so perché lo faccio ma ne butto giù uno, mi salgono i conati ma ingoio. Anche la ragazza francese lo prova. Peccato che a me due giorni dopo darà qualche problema intestinale…
Nel frattempo, scopriamo che Valerie, una delle due, a Montpellier fa un corso di danze africane con un amico di Mich, il mondo è veramente un buco. Connessioni impossibili! Iniziamo a chiacchierare, Céline vive a Ouaga da quasi un anno e fa la botanica, si è trasferita qui per vivere col ragazzo, Ibe, mezzo burkinabé e mezzo ivoriano. La terza è appunto Valerie che è venuta a trovare l’amica. Ci troviamo subito, Celine parla spagnolo…sono salvo! Posso finalmente intessere un discorso che vada al di là di “oui”, “merci”, “ça va” e grandi sorrisi.
Scopriamo che il nostro programma dei due giorni successivi è lo stesso, così proseguiamo insieme! È per questo che amo viaggiare da solo, incontri fortuiti per strada si trasformano in bocconi di vita da mangiare insieme. Storie diverse, ognuna unica, si intrecciano per qualche giorno per poi disperdersi e chissà se mai ritrovarsi. E la libertà di riprendere la strada da solo quando ti va. La sera andiamo a sentire un concerto di musica tradizionale e Mich decide di unirsi al gruppo per il weekend. Due francesi, un italiano, un burkinabé e un ivoriano: un bel mix!
Si parte alla volta di Banfora, il paesaggio cambia, ci si avvicina alla Costa d’Avorio ed è tutto più lussureggiante, tropicale. Una gioia per gli occhi.
Arriviamo a Banfora e inizia una tarantella tra Mich, Ibe e i locali che si offrono per portarci nei dintorni della città a scoprire le bellezze del posto. La spunta Sibirì, un giovane rasta dallo sguardo dolce e gli occhi scuri profondissimi, il cui nome nella sua lingua vuol dire Sabato. Ci procura tre motorini e viene con noi, saremo in sei per questi due giorni!!
In sella con Mich lasciamo le solite polverose strade cittadine e ci inoltriamo nella campagna: è stupendo, lingue di terra rosso mattone in mezzo a verdissimi campi di canne da zucchero, riso e piantagioni di banane. È l’Africa. Con l’aria in faccia, respiro a pieni polmoni e provo quel senso di libertà assoluta che solo il viaggio sa darmi. Mi commuovo.
Andiamo ai picchi di Fabadougou, strane formazioni rocciose, dove dall’alto il paesaggio lussureggiante è ancora più memorabile. Poi alle cascate di Karfiguela, l’acqua è marrone ma Sibirì libera dalla cuffia i suoi dread e si butta. Lo seguiamo! A fine giornata andiamo al lago di Tengrela, il lago degli ippopotami. Nei campi di riso, le mondine lavorano ancora coi piedi nel fango e la zappa, ci salutano mentre sfrecciamo loro a fianco. Il lago al tramonto è stupendo, un uomo del posto ci porta con la sua piroga a cercare gli ippopotami che purtroppo nella stagione delle piogge si nascondono bene nella vegetazione. Infatti non ne vediamo. Peccato. Arriviamo a Banfora che è già buio: che giornata!
Quella seguente invece cambia faccia, la sera mi sento strano e credo di avere la febbre, passo una notte terribile e temo di essermi beccato la malaria. La mattina invece sono fresco ma continuo a sudare e sentirmi strano. Decido di partire lo stesso coi ragazzi, viene a prenderci Sibirì con la Opel di un amico e andiamo in direzione Niansogoni, un villaggio troglodita di pigmei abbarbicato su una montagna proprio sul confine col Mali. Peccato che per andarci dopo cinquanta chilometri di strada asfaltata ce ne siamo trentasette di “pista” come la chiamano qui ovvero terra battuta dove si creano voragini che in questa stagione si riempiono di fango e acqua.
Ci finiamo dentro con l’auto, più volte scendiamo a piedi nudi nel fango a spingere. Siamo rossi di terra dalla testa ai piedi. Riusciamo miracolosamente ad arrivare a Niansogoni e visitare lo stupendo villaggio pigmeo. Il ritorno sarà diverso, dopo pochi chilometri la macchina sprofonda in una buca d’acqua e si spegne. La tiriamo fuori grazie all’aiuto di alcuni burkinabé di passaggio. Ma non ne vuole sapere di ripartire. Morta. Kaput! Siamo nel mezzo di una foresta, sono le 16. Ci rimarremo fino alle 21 cercando varie soluzioni fino a quando un taxi-brousse (un minibus locale) ci traina fino a Banfora, distruggendo la macchina del povero Sibirì, per via delle buche affrontate a velocità improponibile per una macchina normale. Io mi butto su una delle panche di legno del taxi-brousse, sfinito, e mi assopisco “cullato” dalle botte spaventose che il minibus prende ogni volta che affronta una buca.
Arriviamo a casa all’una di notte, increduli di avercela fatta. La mattina ci alziamo e andiamo a prendere il bus per Bobo. Ne approfitto per un ultimo giro al mercato. Adoro i mercati africani, così colorati, chiassosi e sporchissimi. A Bobo saluto Celine, Valerie, Ibe e Michael. Spero di rivederli, sono stato bene.
Ed eccomi, sono quasi a Ouaga, la brousse scorre a fianco al finestrino. A mezzanotte parte il mio volo per Istanbul e come per Cenerentola, la magia svanisce. Solo che qui stavo su una zucca e torno in carrozza. Burkina Faso, un paese sconosciuto ma così ricco di tradizioni, valori e cultura da poter fare invidia. Un paese di donne, uomini e bambini certamente poveri, spesso poverissimi, ma ricchi di anima. Una cosa è certa: tornerò, qui. In Burkina, in Africa. Togo, Etiopia, Mauritania, Benin, Zambia, Malawi… un’unica terra, una terra unica che ti sporca di rosso e non si leva più dalla pelle. Chiudo con le parole dell’ultima canzone di Hado, una speranza per me e i miei fratelli africani: “Together fight in the morning, FREEDOM in the evening”.
Merci Afrique, je t’aime.