Togo – Giorno #7
Sono solo. Da qualche ora ho salutato Ilaria e Ludovica, le due volontarie della Maison. Ieri è stata una bellissima giornata, passata in compagnia. Di mattina abbiamo visitato il villaggio di Kouma Konda, sul monte Kloto, una delle due montagne che dominano Kpalimé. È un villaggio rurale con parecchi progetti di cooperazione europei per lo sviluppo di attività agricole legate alla coltivazione di caffè e cacao.
Proprio lì mentre sorseggiavamo una tazza di caffè bollente, ho incontrato Dotcha e Ziko, due ragazzi togolesi che vivono a Milano dove hanno un’associazione che attraverso l’insegnamento della danza africana sostiene la popolazione locale, in particolare i bambini. La sede è a Corvetto, due fermate di metro da casa mia. Ridiamo, il mondo è così microscopico. Sono con un gruppo di italiani che tra qualche giorno inizierà un corso di danza a Lomé. Improvvisano una session di percussioni e danza in mezzo alla piazzetta del villaggio, racconto loro della mia esperienza in Burkina e non posso esimermi dal provare un paio di passi col gruppo. Sono rigido, notoriamente la mia flessibilità è pari a quella di un tronco ma le percussioni africane riuscirebbero a smuovere qualsiasi oggetto inanimato e mi lancio indiavolato sul dance-floor di terra improvvisato. Mi piacerebbe tornare a Lomé per ballare con loro ma il progetto è dirigermi verso Nord e risalire tutto il paese. Torniamo alla Maison dove saluto i bambini e Susanna.
Nel pomeriggio con Ilaria e Ludovica andiamo al Plateau de Danyi, un altopiano che costeggia il confine con il Ghana. Da lassù si vede l’immensa distesa d’acqua del Lago Volta, in territorio ghanese. In pochi chilometri puoi superare il confine e trovarti nel vicino paese anglofono. Arriviamo al monastero benedettino di Dzobegan, vogliamo provare la calma contemplativa dei monaci. Il posto è immerso sull’altopiano, in una natura rigogliosa e piena di frutti. Nel negozietto del monastero vendono marmellata di mango e di ananas, biscotti, oli essenziali, tisane. Facciamo spesa e prendiamo una stanza per la notte. Passiamo una serata bizzarra, bisogna osservare il silenzio e ad ogni ora, i monaci — tutti autoctoni — pregano cantando. Che strano pensare che fino a cent’anni fa o poco più, qui si pregavano solo gli antenati e si venerava la natura.
Consumiamo la cena nel refettorio, confidiamo che i monaci siano delle buone forchette visto che a pranzo abbiamo mangiato poco. Portano un’insalata di patate, cavolo, carote e pesce. Pensiamo sia solo l’antipasto e ce lo gustiamo, subito dopo arriva l’anguria e il sogno svanisce. Quel piatto era l’unica portata della cena! Ci sfameremo in stanza con i biscottini comprati al negozietto. La mattina facciamo un giro nel villaggio, è domenica, vediamo prima una processione e poi in paese la gente che pigramente si riposa ai bordi della strada, in effetti non penso che durante la settimana sia diverso! Contrattiamo con una macchina per riportarci a Adeta, una città vicina sulla strada principale che unisce Kpalimé ad Atakpamé. Per 3.000 cfa chiudiamo la contrattazione ma dobbiamo aspettare un’ora perché al monastero stanno facendo messa e nessuno può farci pagare la stanza. Ad Adeta saluto le ragazze che tornano alla Maison, la mia strada dice nord.
Trovo un’auto che va a Atakpamè, a un’ottantina di chilometri da lì. Ci sono pochi passeggeri per cui, come sempre, si attende che si riempia. Non esistono orari in Africa, oserei dire che il tempo non esiste. La gente attende ore senza muoversi da una panchina, non protesta, non cammina, non guarda l’orologio. Attende. È dura abituarsi per uno che alla fermata della metro percorre la banchina avanti e indietro quattro volte nei quattro minuti di attesa del treno.
Vado ad un maquis, i ristorantini a bordo strada e mangio un cous cous. Attendo speranzoso la chiamata dell’autista che non arriva. Si avvicina un ragazzo che mi chiede se può sedersi, dopo una settimana qui inizio a capire abbastanza bene il francese togolese, mi esprimo sbocconcellando il mio francese ancora acerbo ma finalmente parlo, capisco e interagisco! Devo ringraziare Claire, la mia insegnante a Milano che mi ha dato la chiave per entrare ancora di più in questo mondo.
Christian, questo il nome del ragazzo, mi spiega che vive aiutando alcune persone a produrre insetticidi, mi fa mille domande sull’Europa, mi dice che il suo sogno è venire da noi. Non è la prima volta da quando sono arrivato, anche ieri il taxista mi ha fatto lo stesso discorso. Non chiede soldi, mi chiede di aiutarlo a fare le carte per partire. Dice che non ha carta d’identità né nazionalità togolese, per farlo serve denaro e lui non ne ha. Non so trovare le parole per spiegargli che venire in Europa non è così semplice e anche riuscendoci la vita è così cara che tu, togolese di 23 anni, rischi di finire ai margini. Mi chiede se posso aiutarlo con i documenti, gli spiego che non ho lavoro da offrirgli per riuscire a farglieli ottenere. Lo guardo, gli chiedo se ha mangiato. Mi dice di no, che oggi ha solo fatto il bucato. Gli compro un piatto di cous cous, il meglio che ora possa fare per lui.
Torno alla macchina, solo quattro passeggeri. Non si parte, bisogna essere almeno in sei oltre all’autista, in un’auto sfasciata che a mala pena ne conterrebbe cinque. Improvvisamente cambiamo mezzo, non capisco come ma partiamo in un pulmino nove posti che, villaggio dopo villaggio, caricherà persone e mercanzie ad ogni angolo. La strada dopo Adeta diventa una pista di terra, ora capisco perché servono più di due ore! Sono seduto nella fila posteriore, il finestrino è aperto e mangio terra rossa che entra copiosa…a sinistra gli altopiani segnano la strada, davanti e dietro solo terra. Apro il libro che sto leggendo, Le nuvole dell’Atakora di Marco Aime, che racconta la storia di un villaggio di montagna del Benin i cui abitanti si ribellano alla costruzione di un nuovo mercato. Vorrei arrivarci, chissà se il destino mi ci porterà.
Arriviamo finalmente ad Atakpamé, non conosco nessuno così prendo uno zem e mi faccio portare negli alberghi segnalati dalla mia guida. Il primo è passabile, dentro il vescovato, ma in mezzo al nulla. Il secondo è una crosta con una stanza piccolissima e calda all’inverosimile. Riprendo lo zem e mi faccio portare in giro da un ragazzo…trovo così un alberghetto decente dove sistemarmi.
Sta per tramontare ma voglio fare un giro in città, sembra carina. È disposta su sette colli e ha le strade lastricate…ad ogni angolo la gente mi saluta e mi dice “Bien arrivé”, ringrazio, saluto tutti. Non vedo altri bianchi, gironzolo un po’ fino a quando un ragazzo mi abborda e iniziamo a chiacchierare. Si chiama David, guida gli zem (strano!?!) ed è molto simpatico. Gli dico che ho fame e chiedo se conosce un posto semplice e buono, lo invito ovviamente a cenare con me e davanti ad un piatto di djongoli con pollo (una specie di polenta di mais) e due birre ghiacciate, mi racconta che la sua donna aspetta il loro primo bambino. Chiedo da quanto sono “fiancè” ma mi spiega che non sono fidanzati. Prima si fa un figlio e si vede come va, poi ci si fidanza!! Perplesso, affondo la forchetta nel mio piatto fumante senza fare ulteriori domande.
Sentiamo una musica dal cortile vicino, chiedo a David di accompagnarmi e ci ritroviamo di fronte a una vera e propria jam-session di percussioni e canto!! Quattro ragazzi fanno vibrare forte la pelle di capra dei djembe e almeno una ventina di persone cantano e accompagnano i djembisti! Fantastico, assisto estasiato e batto forti le mani. David mi traduce alcune frasi della canzone in ewé, la lingua locale.
Si è fatto tardi, il mio nuovo amico mi riaccompagna in hotel e rimaniamo d’accordo che il giorno dopo mi sarebbe passato a prendere per portarmi a prendere il taxi-brousse. Rotta per Kara, al nord del Togo…sarà un lungo viaggio sicuramente denso di afro-avventure! Bonne nuit!