Camerun – giorni #18-21
Sono seduto sul bordo dell’Oceano.
Domani a quest’ora sarò già all’aeroporto per prendere il volo che mi riporterà a casa.
Ho lasciato Poli con tanta fatica ma il cuore pieno di riconoscenza. È stata un’esperienza fantastica, oltre ogni mia aspettativa. Il coronamento di un viaggio incredibile in questa terra d’Africa che non smette mai di stupirmi.
Salutando i ragazzi, mi sono lasciato andare ad un discorso pieno di significato. Li ho “convocati” nella mia stanza alla Missione per ringraziarli e promettere che non mi dimenticherò di loro, che resteremo in contatto e li aiuterò per quanto mi sarà possibile.
La loro onestà, la loro nobiltà d’animo mi hanno davvero colpito. E non è retorica dire che quanto mi hanno donato è molto più di quello che ho fatto io per loro.
Erano lì, in quella stanzetta e mi ascoltavano in silenzio. Ho voluto mi promettessero che si batteranno per questa vita, per rimanere nella loro terra e diventare degli uomini maturi.
Li vedevo annuire, ho sentito il cuore pesare.
Prima di uscire Alain mi guarda e dice: “Grazie Riccardo, hai fatto tanto per noi. Quando avrò dei figli racconterò loro di te”
Colpito e affondato. Quando escono, mi abbandono a un pianto tanto disperato quanto liberatorio.
Mi ci sono voluti quasi due giorni di viaggio per ritornare a sud. Yaoundé prima, e poi qualche ora di bus per arrivare qui, di fronte all’Oceano, a Kribi, la località di villeggiatura più conosciuta del paese.
Ho scelto di passare questi ultimi due giorni in un piccolo albergo sulla spiaggia, in quasi totale isolamento.
In questa stagione di piogge Kribi è quasi deserta e ha quell’aria malinconica e trasandata di quelle località di mare quando tutti se ne sono andati. E resta il mare, quell’immensa distesa d’acqua che ha il colore nero delle nuvole che minacciose promettono tempesta. L’orizzonte si confonde con il cielo e con il mare e io lì, a passeggiare sulla battigia solo tra i miei pensieri.
Sento che anche questo viaggio sta finendo, sento di aver dato tutto. Di aver ricevuto tutto.
Si dice che viaggiare sia un modo per uscire dalla propria zona di comfort, per mettersi alla prova.
E allora per me l’Africa è la mia zona di scomfort. Perché mi malmena, mi maltratta, mi spezza le ossa con quelle attese interminabili e quei viaggi scomodi. Mi fa annusare la puzza delle sue strade, mi obbliga a vedere la corruzione dei suoi governanti, la povertà della sua gente. Mi obbliga a confrontarmi con me stesso. Mi mette davanti agli occhi le nostre responsabilità, mi mostra quanto male continuiamo a fare a questo popolo, depredandolo delle sue risorse, portando via tutto quello che possa garantire il nostro benessere, la nostra vita agiata.
Ma poi mi prende per mano, mi accompagna e mi protegge. Mi fa conoscere la dignità umana, mi mostra i mille lati stupendi della sua natura impetuosa, della sua gente accogliente. Mi mostra un altro modo di concepire la vita, fatto di condivisione, di stare insieme, di senso di comunità e fratellanza. Ma anche di voglia di fare, di giovani che hanno un futuro da costruire in un paese con immense possibilità.
Mi commuove, mi emoziona, mi fa palpitare di vita.
E allora non riesco a vedermi in nessun altro posto del mondo, l’Africa è diventata in poco tempo il mio rifugio, quel luogo dove viaggiare diventa un percorso interiore. Dove fa niente se a volte non capisci, dove le tue regole vengono messe in discussione, dove capisci che quelle regole sono labili costruzioni mentali.
Dove palpita il cuore del mondo.
Dove mi sento me stesso.
Au revoir, grande immensa e saggia Africa.